Le opinioni

Non di sola pandemia e guerra si nutre l’infelicità sul lavoro

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 di Antonio Dini (Giornalista e scrittore)

Diciamoci la verità: la pandemia non è il problema. Il rapporto tra felicità, lavoro ed economia in generale non è legato al lockdown o alla scoperta del lavoro a distanza. Certo, l’impatto c’è stato, e dagli Usa sono arrivati termini come burnout, quiet quitting, Great Resignation.

Però il problema è un altro. Il tema è più ampio ed è figlio di un malessere sociale diffuso. Verrebbe voglia di etichettare il problema con la poca voglia di lavorare, i “fannulloni dello smart working”, magari i lavativi del reddito di cittadinanza, proposto in maniera populistica proprio per generare questo tipo di consenso divisivo. Non è questo. Il malessere cela in realtà la richiesta di più felicità nel mondo del lavoro e quindi nel privato.

Ci sono decine di studi, portati avanti negli ultimi vent’anni, che sottolineano come l’ambiente lavorativo sia diventato sempre più conflittuale. Tre grandi crisi, causate dal crollo del mercato finanziario, da una pandemia e ora da una guerra, hanno innalzato il livello del logorio sul posto di lavoro. La soluzione, il modo migliore per uscirne, è quello di una trasformazione che non è solo digitale. Il software non è la risposta. Il punto non è imparare a usare internet per lavorare da casa. Il punto è imparare a lavorare in maniera diversa.

La trasformazione culturale delle aziende dovrebbe essere basata sul cambio di passo delle organizzazioni. Oggi infatti il tempo del lavoro occupa, secondo la Sloan School of Management del Mit di Boston, sempre più spazio nelle nostre vite, sia in termini di ore spese ogni giorno che di anni della vita passati a lavorare e a studiare. Quest’ultimo punto viene spesso trascurato ma è fondamentale: all’allungamento del tempo sui banchi di scuola per via di master e specializzazioni, oggi necessari per presentarsi super-qualificati ai colloqui di lavoro, poi si aggiungono le ore della formazione permanente che accompagna per il resto dei loro giorni sempre più categorie di lavoratori e impiegati.Tuttavia, dire che il tempo speso lavorando è un tempo di infelicità è un po’ generico.

Altre ricerche, a partire dai grandi quadri dell’Istituto Gallup, che dal 2006 misura la percezione del benessere delle persone per capire come sta andando la loro vita, fanno più chiarezza.

La distinzione tra impegno sul lavoro e benessere nel privato sta sfumando sempre di più: sono diventate le due facce di un’unica moneta. Lo stress sul lavoro porta non solo a burnout ma anche tensioni nel privato e viceversa, il benessere generale influenza la vita lavorativa.

Se gli impiegati piangono, i dirigenti però non ridono. Per il Future Forum tra i manager e dirigenti il burnout è aumentato in maniera rapidissima negli ultimi tre anni mentre la soddisfazione sul lavoro è precipitata ai livelli più bassi degli ultimi quaranta. C’è insicurezza e la percezione di non essere adeguati a cambiamenti di organizzazione e struttura: molta “rabbia” dei capi deriva da un profondo senso di inadeguatezza e dalla paura di perdere il controllo delle organizzazioni rivoluzionate dal digitale e dallo smart working.

L’opportunità, in questa fase storica, è insomma quella di ridisegnare il modo con il quale funzionano le aziende. A partire dalla formazione dei dirigenti, che venti o trenta anni dopo aver completato gli studi dovrebbero imparare di nuovo com’è fatta un’azienda e come si guida. E dai lavoratori della conoscenza, che dovrebbero capire che il quiet quitting, cioè combattere il malessere limitandosi a fare solo ciò che gli viene chiesto, il minimo indispensabile, non è una risposta accettabile. Come fare?

Al di là degli aspetti tecnici, secondo vari studi le parole chiave sono due: trasparenza e inclusività. Nessuna forma di trasformazione aziendale è possibile senza una fase di cambiamento che coinvolga tutti, dai vertici ai lavoratori, facilitati da persone competenti, capaci di reinventare assieme a loro il modo con il quale lavorare ogni giorno per produrre ricchezza ed essere felici.

Il vero problema è che non lo stiamo facendo. È questo il problema altro che pandemia o smart working.