Le opinioni

Performance: prendiamo esempio dal Pi greco

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di Antonio Dini (Giornalista e scrittore)

Alcuni giorni fa sono rimasto incantato leggendo un articolo su una rivista americana che parlava del Pi greco. Sì, proprio la costante matematica che indica il rapporto tra la circonferenza e il suodiametro (tra l’altro, ho anche scoperto perché la lettera greca scelta è proprio la “p”: è l’iniziale di perifereia, che in greco vuol dire “circonferenza”). Il Pi greco era ovviamente una scusa per parlare d’altro: l’autrice è KC Cole, una veterana del giornalismo scientifico in pensione. Dice: attenzione, perché la matematica che usiamo per misurare, classificare e valutare le cose, le persone, il lavoro, ne sta distorcendo il loro valore reale.

Cole spiega che dare il voto agli studenti, valutare i curricula, misurare la performance sul lavoro, anche semplicemente leggere gli indicatori finanziari delle agenzie di rating piuttosto che delle percentuali di crescita rispetto al debito ma prima (o dopo?) le tasse, è un esercizio che può essere non solo futile, ma anche distorsivo.

Cosa valutiamo? Cosa pesiamo? Il Pi greco è in realtà una relazione, non una grandezza: è composto da una serie infinita di cifre e i numeri decimali sono solo una traduzione per rappresentare un rapporto. Con l’avvertenza, però, che nelle traduzioni si perde sempre qualcosa.

Alle volte anche il senso stesso di quello che viene detto. Allora, come si valuta uno studente? Sulla base delle crocette messe sulle risposte giuste? Ma un test quantitativo è, al massimo, una comparazione con quello che l’autore del test pensa che uno studente debba sapere e l’efficacia dell’istruzione. Il voto non è più un voto, ma una misura di un momento relativo in cui è prevalente l’opinione di chi prepara il test rispetto all’informazione su chi sia la persona che ha effettivamente svolto il test.

Oppure pensate all’idea stessa di eccellenza. Come possiamo misurarla? Due tra le più grandi “fabbriche” americane di eccellenze, la facoltà di medicina e quella di legge di Harvard, sono uscite dalla classifica di US News & World Report perché «le classifiche non possono riflettere in modo significativo l’eccellenza educativa». Il mondo è complicato e una misurazione, per quanto sofisticata, non lo rappresenta in maniera soddisfacente.

Questa mania per i numeri che dovrebbero essere realtà oggettiva è ovunque nella nostra società. Non ci rendiamo più conto che sono solo delle misure relative al rapporto tra cosa misuriamo con quello con cui lo misuriamo. Però ne siamo ossessionati. I valori nelle analisi mediche, la performance sportiva, la valutazione di un servizio, le stelline per un prodotto, la valutazione di un film, il punteggio per un venditore in un negozio online. I numeri che utilizziamo per queste misure non ci dicono in realtà niente della cosa in sé e queste misure, come per la serie infinita di cifre che compongono il Pi greco, scrive la giornalista, «sembrano non avere mai fine».

Montagne di valutazioni che in realtà non valutano proprio niente in maniera reale. Anche per la nostra performance personale, magari sul lavoro, magari nel tempo libero, magari rispetto alla nostra età. Come posso misurarla? Posso usare il rapporto tra la mia età biologica rispetto a quella reale? Rispetto alle aspettative sociali? Rispetto alle statistiche delle persone della mia generazione? Rispetto a me stesso da giovane? Devo chiedermi: «Oggi sono andato meglio o peggio di ieri» e poi darmi un voto? Magari in stelline?

La verità è che molte misure sono semplicemente impossibili. Il matematico Paul Lockhart, che ha scritto un libro fantastico intitolato “Measurement” (che andrebbe tradotto in italiano di corsa), scrive:

Quando misuriamo qualcosa la stiamo comparando con quello con cui la stiamo misurando.

E aggiunge che alcune misure «sono semplicemente impossibili» perché in realtà «possiamo sperare di misurare solo le cose più semplici».

Allora, per parlare un po’ di economia e di felicità, come possiamo misurare il valore e l’importanza di un dipendente per un’azienda? Se c’è un calo quantitativo di produttività, è diventato un cattivo dipendente? E se aumenta vuol dire che è un ottimo dipendente? E poi su cosa lo misuriamo? Sulla puntualità? Sul livello di buonumore? Sul numero di pratiche che ha smaltito? Sulla velocità con cui risponde alle email? Sul volume di fatturato? Sicuramente ci sono consulenti pronti a spiegare, con montagne di grafici e tabelle, che si può misurare tutto, dal “sentiment” dei dipendenti alla performance operativa, che poi dovrà ovviamente (per loro) essere ottimizzata.

In realtà, no. Perché fraintendere la misurazione significa fraintendere la comprensione stessa di quello che stiamo misurando. Ed è invece proprio quello l’esercizio che dovremmo fare: capire sul serio cos’è quella cosa che vogliamo così disperatamente misurare. Come il Pi greco: non ci dice niente della lunghezza della circonferenza o del raggio ma indica invece il loro rapporto.