Le opinioni

L’elogio dell’essere prevedibili: così possiamo resettarci e sconfiggere l’infelicità

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di Antonio Dini (Giornalista e scrittore)

Alla fine, siamo tutti prevedibili. E, come un computer, possiamo riprogrammare i nostri stati d’animo migliorando la vita, sia a casa sia sul lavoro. Essere prevedibili suona male, diciamo pure che non è un complimento dire a qualcuno «sei prevedibile». In realtà è una caratteristica che ci aiuta molto, è una nostra alleata. Perché la prevedibilità ci permette di capire meglio come siamo fatti e poi di agire per cambiare in meglio le cose che non vanno. L’idea l’ho incontrata grazie a un manager oggi imprenditore, Mo Gawdat, e secondo me vale la pena di essere condivisa soprattutto in un momento in cui lo stress lavorativo è acuito da quello internazionale (la guerra, le difficoltà dell’economia) e dalla fatica post-pandemia.

La storia di Gawdat è già notevole di suo: nato in Egitto nel 1967, laureato in ingegneria, lavora per Ibm e altre grandi aziende in Medio Oriente per poi a trasferirsi negli Stati Uniti con una serie di posizioni di rilievo prima con Microsoft e poi soprattutto con Google, dove è diventato il numero uno di Google X, il centro di ricerca semi-segreto dell’azienda (quello dove sono nati i Google Glass e Waymo, diventata una startup per le auto a guida autonoma). Ha avuto successo? Sì, moltissimo: un sacco di soldi, case e auto di lusso, vita di eccellenza. Ma anche ritmi di lavoro alienanti, standard altissimi che portano a stress e perenne insoddisfazione. Poi, nel miglior stile della Silicon Valley, si è licenziato e ha deciso di fare l’imprenditore e l’uomo di idee. E che idee: ha scritto alcuni libri molto interessanti se vogliamo capire come funziona la nostra felicità non solo sul lavoro, studiando le neuroscienze ma sfruttando anche il suo background come programmatore. Il suo libro più famoso si intitola L’equazione della felicità (Rizzoli) che già dal titolo è tutto un programma. Mentre l’ultima fatica, appena arrivata in Italia, è Quella vocina nella tua testa (Roi Edizioni), che distilla il pensiero di Gawdat e lo arricchisce.

L’idea di fondo è che sia la felicità sia l’infelicità sono emozioni utili, dipendono da ragioni diverse e devono avere un arco di vita differente. La felicità è la soddisfazione che proviamo quando la nostra vita va come vogliamo, mentre l’infelicità è un meccanismo di sopravvivenza che ci informa con urgenza che ci sono cose che non vanno. Quest’ultimo è uno stato acuto che non deve perdurare. Ma come si fa a trasformare l’infelicità in felicità?

Qui rientra il discorso iniziale: siamo creature alla fine prevedibili. Basta mettere in pista i comportamenti giusti e il nostro cervello si allinea, ubbidiente, seguendo la strada che gli indichiamo. C’è una trappola da evitare: quella dell’infelicità che, dice Gawdat, scatta quando l’emozione perdura. Ma in realtà «nessun evento della nostra vita ha il potere di renderci infelici finché non scegliamo di concederglielo, e di lasciare che ci torturi». Se l’infelicità sta nei nostri pensieri, l’unico modo per sconfiggerla è giocare al suo gioco e rimodellare i nostri pensieri. Qui entra il Gawdat ingegnere e informatico, che spiega come basti cambiare il modo negativo con il quale parliamo a noi stessi per trasformarci e sperimentare di nuovo la felicità.

Infatti «il nostro cervello non è altro che un sofisticato sistema informatico. Il suo funzionamento è altamente prevedibile: non è necessario avere un cervello silente per essere felici. È sufficiente un cervello positivo e utile. Farà quello che gli chiediamo di fare».

Alla fine è un discorso legato all’auto-consapevolezza e alla capacità che abbiamo di prendere in mano la nostra vita (e il nostro cervello) decidendo in quale direzione vogliamo andare e che persona vogliamo essere. Le persone razionali vogliono essere felici e possono agire di conseguenza. Ma la domanda vera che rimane sullo sfondo è un’altra: siamo sicuri che vogliamo veramente essere felici? Perché molte delle persone che incontro in ufficio o fuori sembra proprio che non lo vogliano, anche se le possibilità ci sono tutte. È questa la cosa che va cambiata: basta convincersene.