Le opinioni

Quella voglia di fare del bene nelle aziende a prova di futuro

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di Antonio Dini – Giornalista e scrittore

Incrocio due cose diverse che sono arrivate contemporaneamente sulla mia scrivania.

Da un lato ci sono i risultati dell’Axios Harris Pool 100, la storica classifica della reputazione dei marchi secondo gli Americani. In testa, con un punteggio molto alto (83,5) basato su una decina di indicatori – tra cui fiducia, traiettoria, prodotti, servizi, visione – c’è Patagonia. L’azienda del “miliardario ribelle” Yvon Chouinard, che ha insegnato ai suoi a prendersi il tempo per fare surf o per andare in montagna a trovare la natura. Patagonia è un marchio con uno scopo: le decisioni della proprietà sono coerenti con i valori di fondo sull’ambiente e il cambiamento. È un marchio che mette i principi e la salvaguardia del pianeta in testa a tutto. I prodotti di Patagonia costano cari (per dileggiarla i soliti invidiosi la chiamano Prada-gonia) ma io mi chiedo piuttosto come fanno altri marchi di grandissima distribuzione a costare pochi euro.

Sarà un caso che Patagonia sia in testa alla classifica? È solo marketing? La risposta è sulla mia scrivania.

Contemporaneamente, mi è arrivato il plico con gli elaborati degli 84 studenti ai quali quest’inverno mi è stato chiesto di tenere un corso di sociologia dei processi culturali. È un esame a domande aperte, perché trovo offensivo per l’intelligenza delle persone (la loro ma anche la mia) trasformare le competenze in una serie di crocette a cui assegnare dei punteggi tennistici.

Le due cose (Patagonia e gli esami) sono collegate, perché le ragazze e i ragazzi cui ho fatto lezione sono gli stessi che domani andranno a lavorare in azienda, apriranno start up, diventeranno opinion leader o semplici consumatori in modi che noi vecchi non ci immaginiamo neanche.

Il plico con gli 84 compiti è un viaggio in astronave su altrettanti mondi, pianeti a noi alieni, dove si incrociano visioni originali e fresche, idealità integre, attitudini non ancora imbruttite dalla cultura di aziende e mercati del lavoro tossici. Per me l’opportunità di esplorare le opinioni di un centinaio di ventenni vale di più di quei pesanti studi, spesso in malafede, oltretutto cari, di cui ci nutriamo e dai quali attingiamo per farci un’idea del mondo alquanto distorta. Le narrazioni di questi giovani sono molto diverse dai quadretti che si leggono sui giornali sotto l’ombrellone, dalle statistiche da talk show.

Il motivo per cui Patagonia e gli esami dei “miei” studenti si toccano è che, guardando l’una e leggendo i compiti degli altri, è impossibile non vedere la vicinanza. C’è un’idea e un candore, una voglia di far del bene e farlo agli altri oltre che a se stessi, che non si trova nella maggior parte delle altre aziende o in noi vecchi cinici.

Come tutti, ho amici che in questo periodo si sono trovati a piedi da un giorno all’altro, cacciati da aziende per le quali lavoravano, oppure che hanno visto il posto di lavoro pian piano sempre più tossico. Sono all’ordine del giorno le storie di riduzione delle risorse da un lato e richieste di aumento della produttività dall’altro. A scapito della qualità del lavoro e del prodotto o servizio che sia.

Magari sarò un ingenuo e un sognatore, mi farò influenzare da chi ha ancora vent’anni, ma secondo me le aziende ben posizionate per il futuro non sono solo quelle grandi e resilienti; non sono quelle strutturate per evitare i take-over e invadere i mercati altrui. Sono quelle che mirano alla collettività e non solo agli azionisti; che mettono al centro il dipendente e il cliente, più che il fatturato; che sono costruite con valori coerenti con l’idea di innovazione e ambiente. Sogno aziende che si prendono cura delle persone, delle comunità e del pianeta. Me lo hanno insegnato quegli 84 studenti e me lo ha confermato la prima posizione di Patagonia.