Nel Mondo delle Pmi

Digitalizzazione per competere sui mercati esteri

Scritto il

di Paolo Cova

Non solo export ma anche presenza all’estero; fare massa critica, con filiere più corte; meno burocrazia e più tecnologia. Perché la globalizzazione c’è ancora, sta solo cambiando pelle.

Sono gli ingredienti che Roberto Corciulo, presidente di IC&Partners (che da 25 anni affianca le imprese per la internazionalizzazione), indica per la ricetta che può aiutare le piccole e medie imprese ad affrontare i mercati internazionali ora e nel prossimo futuro.

«Assistiamo a una fase di recessione globale significativa», esordisce Corciulo. «Serve riposizionarsi su nuovi mercati, anche lontani. La digitalizzazione e l’e-commerce possono aiutare a superare la logica delle fiere in presenza, cui le Pmi fanno fatica a partecipare. Pensiamo a temi come le certificazioni, le regole, le etichette, il packaging: la digitalizzazione può aiutare a presentare prodotti a distanza. Ma le Pmi dovranno trovare anche forme di aggregazione per fare massa critica per reggere la concorrenza su mercati lontani. Dimensioni adeguate possono essere raggiunte anche con l’aiuto dei fondi, ma i tempi sono lunghi. Quindi è importante creare reti di imprese o consorzi».

Il punto di forza di Italia ed Europa «è l’alto contenuto tecnologico: già la digitalizzazione e i processi 4.0 hanno aiutato le imprese a superare il Covid. Ora si tratta di andare avanti: se ci si vuole internazionalizzare, la digitalizzazione è indispensabile. Ma attenzione: dal  2008 l’export è aumentato perché ci è mancato il mercato interno.

Ora che anche la Germania e altri Paesi europei naturali destinatari di nostri prodotti sono in difficoltà, serve alzare lo sguardo e guardare più lontano».

Secondo Corciulo «tremila chilometri sono un raggio d’azione a misura di Pmi. Si copre tutta l’Europa, il Nord Africa, l’Africa subsahariana e il Medio Oriente. Ma la formula non dev’essere solo export. Si tratterà di fare anche investimenti in loco sulla competenza. Nel 2030 l’Africa del Nord avrà 350 milioni di abitanti, di cui il 70% under 30. Ovviamente non tutti con la capacità di spesa degli italiani. Laggiù la Cina è già riuscita ad entrare, con i suoi prodotti di scarsa qualità. I nostri, di qualità medio-alta, faranno fatica a entrare su quei mercati senza una presenza in loco con investimenti diretti. Il puro export non basterà più. Lo stesso discorso vale per Arabia Saudita o America Latina, ma allontanandosi la cosa si fa più difficile. Ecco perché la tecnologia può aiutare ma serve anche la presenza fisica.

E questo vale per molti settori: farmaceutica, legno-arredo, chimica di trasformazione, meccanica, automazione, infrastrutture». Quindi la globalizzazione sta arretrando? «No, sta solo cambiando pelle, adattandosi alla geopolitica.

Aiutata dalla tecnologia: ad esempio le piattaforme gratuite per fare videoconferenze on line sono globalizzazione! I commerciali, una volta, vedendosi in una fiera si salutavano dicendo ‘Ci vediamo l’anno prossimo’. Ora dicono: ‘Ci vediamo in call la settimana prossima’. I servizi IT accorciano le filiere». Il reshoring, cioè il ritorno di produzioni in Italia, «è in corso da anni. Da Cina e India, in particolare. La pandemia ha aiutato, in questo senso. Il costo della manodopera non è più così discriminante. Piuttosto, lo sono i costi energetici e burocratici: se devo lasciare l’Asia, conviene di più approdare nei Balcani che in Italia. Dove dobbiamo lavorare ancora molto su sburocratizzazione, tasse, costi dell’energia, carenza di infrastrutture, che ci rendono poco competitivi. L’Europa ha ancora un grande potenziale per capitale umano e sistemi di ricerca. Ma serve focalizzarsi  su filiere in cui si possa essere competitivi e con alto valore aggiunto, grazie alla tecnologia».

Investimenti 4.0 in ritardo

Le Pmi avvertono sempre di più un clima di incertezza globale che frena le scelte strategiche. Tra queste, la internazionalizzazione e la digitalizzazione. È quanto risulta da una ricerca svolta dallo Iulm di Milano e presentata di recente alla Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi nel corso dell’evento “Made in Italy, quale futuro? – L’export tra digitalizzazione e nuove sfide internazionali”.

La pandemia, la guerra in Ucraina e, più in generale, la precarietà degli equilibri geopolitici sono avvertiti sempre di più come fenomeni diventati quasi endogeni più che episodici,  imponendo così alle imprese un ripensamento dei propri approcci all’internazionalizzazione.

Solo il 23% delle aziende si considera digitalizzata. Su questo fronte c’è ancora molto da fare: appena il 35% dichiara di avere una chiara strategia di digitalizzazione. Eppure i dati evidenziano chiaramente l’importanza di un’organizzazione tecnologica aziendale più avanzata: le imprese “altamente digitalizzate” hanno in media una performance sui mercati internazionali più alta del 27% rispetto alle altre.

Percentuali poco soddisfacenti anche per le aziende che affermano di avere acquisito importanti tecnologie digitali per l’export (32%) e per quelle che dicono di essere in grado di rispondere in maniera adeguata alla trasformazione tecnologica in atto nei mercati internazionali (35%). Infine, meno della metà sono in grado di dominare tecnologie digitali all’avanguardia e solo il 36% afferma di utilizzare sistemi di sales automation.