Nel Mondo delle Pmi

Sirolli, il “papà delle PMI”: Si vince con il gioco di squadra

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di Beppe Ceccato

C’è un italiano, cittadino del mondo, che nella sua vita ha contribuito a creare oltre 55mila imprese. Per lo più micro o piccole, dall’Africa all’Australia, dagli Stati Uniti all’Europa. Un numero da Guinness dei primati. Si chiama Ernesto Sirolli, 72 anni compiuti lo scorso settembre, due occhi che ti scavano, il perenne sorriso sulle labbra. Il suo lavoro è un mix di tanti talenti, economici, finanziari, psicologici. Ma c’è una cosa che sa fare benissimo: ascoltare. E poi dare soluzioni.

Il Settimanale lo ha intercettato a Milano, dove si trova per i Digital Innovation Days (dal 26 al 28 ottobre, maggiori informazioni nel box qui in basso). «Ho inventato il medico di famiglia degli affari», sorride. Un dottore che la sa lunga, che coniuga gli ippopotami del fiume Zambesi con gli Strategic Business Developer. In mezzo a questi estremi ci sono anni di studio e di lavoro. Una miniera inesauribile di spunti per le Pmi italiane e per il nostro magazine. Per questo Sirolli ha accettato di raccontare per noi da Sacramento, città californiana dove vive, notizie, riflessioni, idee…

Partiamo dagli ippopotami, una storia che lo ha reso famoso nel primo Tedx, programma di eventi, che ha tenuto nel 2012, uno dei più visti di sempre: oltre tre milioni di persone…

R. Da giovane ho lavorato per sette anni in un’agenzia italiana che si occupava di organizzazione tecnica in Paesi in via di sviluppo. Eravamo in Zambia, in una vallata fertile, lungo il corso dello Zambesi. Costruimmo degli orti spettacolari. Quando i pomodori diventarono grossi come pugni dall’acqua arrivarono duecento ippopotami che si mangiarono tutto. Noi eravamo disperati, gli abitanti invece ridevano a crepapelle. Non capivamo, poi ci hanno spiegato: voi ci pagate per insegnarci tutto questo ma noi lo sappiamo che qui non possiamo coltivare nulla. Ora ci sono gli ippopotami, poi arriveranno gli elefanti nelle loro migrazioni stagionali che, oltre ad ammazzare persone, devastano tutto. Davamo loro un dollaro americano al giorno, era il 1971, allora con quel soldo ci compravi 25 kg di mais. Loro avevano un’agricoltura, però nascosta nel bush, frutta, erbe commestibili.

Storia bella, che fa pensare.

R. Lasciai il lavoro e andai in Sudafrica per un dottorato di ricerca. La mia tesi era: possiamo fare sviluppo in risposta? Molti mi dissero: “non puoi ascoltarli, sono ignoranti, non hanno la nostra cultura”. Fu allora che scoprii Carl Rogers (psicologo americano, ndr), il quale sosteneva: “Il cliente è più importante di te”. Mi sono cadute tutte le certezze, mi sono preso un anno di riflessione, domandandomi chi fossero le persone che ascoltano, gli psicologi, il counselor rogeriano. Da questo percorso ho tratto la prima assumption. Tutte le persone hanno un sogno: migliorare se stesse. Ho lavorato in 22 Paesi nel mondo e ovunque, anche nel più piccolo villaggetto sperduto, tutti mi hanno raccontato i loro sogni.

Con i sogni però non si fa impresa. Sono un ottimo inizio.

R. Le mie domande sono semplici. Cosa sai fare di queste tre cose: vendita, prodotto, controllo finanziario? Se vuoi occuparti di tutte e tre da solo, non ci riuscirai mai. Ho aiutato in 400 comunità senza mai dire loro cosa fare, semplicemente ascoltando. Invece di cambiare il cervello devi insegnare a rimuovere gli ostacoli. Puoi avere il prodotto più bello, interessante, geniale del mondo ma se non lo sai vendere né controllare l’aspetto finanziario, non andrai da nessuna parte. Devi unirti a chi sa fare queste altre cose. Non conosci nessuno? Ti aiuto io a cercarli vicino a te. Mi sono inventato il mestiere dell’agevolatore d’impresa.

Gli americani questo lo hanno capito da tempo. L’unione fa la forza, come si dice.

R. Chi sono le Pmi oggi? Persone che stanno morendo di solitudine. Si parla tanto della genialità italiana (unico, vero punto di forza dell’impresa nel nostro Paese), ma perché, se siamo così geni, arriva in Italia un’azienda come Amazon e ci fa neri? Che cos’hanno gli americani che noi italiani non abbiamo? Lavorano insieme, fanno squadra. Per questo non abbiamo chance. Steve Jobs è diventato grande perché era consapevole di avere un grande prodotto ma anche che aveva bisogno di aiuto per riuscire a venderlo: il pugno che rompeva lo schermo di un computer (era l’Ibm!) è stato un messaggio fortissimo, una vera dichiarazione di guerra.

In Italia abbiamo il capitale umano…

R. Uno straordinario capitale umano, aggiungo, che va difeso a tutti i costi. Dobbiamo insegnare il management e la gestione finanziaria alle Pmi. Avere un prodotto favoloso non basta, ci vuole un commerciale favoloso e una finanza favolosa. Dobbiamo smettere di raccontarci la mitologia dell’imprenditore solitario e genio. Non esiste. Le foto dell’uomo (è sempre un maschio) da solo al comando non è vera. Chi badava ai conti di Enzo Ferrari quando ha aperto la prima leadership dell’Alfa Romeo a Modena? Se lo chiede a un professore universitario non lo sa. Era la signora Adalgisa, sua mamma.

In Italia è difficile condividere imprenditorialmente le proprie idee.

R. All’artigiano va detto: non dare il tuo prodotto a nessuno, non svenderlo. Se non sei in grado di venderlo, fai un’alleanza strategica con persone che amano farlo.

I commerciali nel nostro Paese sono ancora poco considerati.

R. Sono visti come venditori di spazzole, figure inutili. Per un imprenditore è più facile trovare un commercialista che un commerciale. Non esiste nemmeno un nome preciso per questo lavoro. In America c’è: è lo Strategic Business Developer, una figura talmente importante che guadagna più dell’amministratore delegato!