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Intervista a Chicco Testa: Serve un ambientalismo razionale, il mix ideale? Rinnovabili-Nucleare

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di Paolo Della Sala

Chicco Testa è la quintessenza del know how sull’energia in Italia. Ambientalista non ideologico (raro trovarne), ha presieduto Legambiente ed è stato presidente del Forum nucleare Italiano fondato da Enel ed Edf, cui sono associate 5 università. È stato presidente del cda di Acea, Enel, Sorgenia, del Kyoto club. Ha diretto il comitato organizzativo del 20º Congresso mondiale dell’energia del Wec-World energy council (2007). Da pochi giorni è alla guida dell’Assoambiente. Nel 2017 ha scritto con Sergio Staino il libro “Troppo Facile dire di no. Prontuario contro l’oscurantismo di massa”. Nel 2020 pubblica “Elogio della crescita felice. Contro l’integralismo ecologico”. Di seguito le sue valutazioni sulla crisi dell’energia.

L’ex ad dell’Eni Scaroni ha dichiarato «nessun Paese Nato si deve arricchire nel corso di questo conflitto». Allude alla Norvegia? Se non è colpa del mercato Ttf, la Borsa di Amsterdam, o dei distributori, che fare?

Come è noto i prezzi dell’energia (gas, energia elettrica) si formano in un mercato libero e concorrenziale, anche se con forti caratteristiche di oligopolio e vincoli fisici alle forniture (tubi) che ne limitano una completa apertura. In una situazione di stress (annuncio di politiche rapide di decarbonizzazione, aumento della domanda post pandemia, aumento della domanda cinese, crisi russa) i prezzi si sono impennati.

Certo in questa situazione alcuni Paesi, che hanno risorse energetiche e le hanno tutelate e promosse, ci guadagnano; chi non ne ha, o non ha voluto cercarne, ci rimette. Difficile porre rimedio a questa situazione.

Poi esistono distorsioni dei mercati e forme eccessive di speculazione, cui si è cercato di fare fronte con la “tassazione degli extraprofitti”, da usare poi per coprire parte delle bollette di famiglie e imprese, che è molto difficile da adottare senza danneggiare gli operatori e disincentivare gli investimenti.

Occorrerebbe risalire in forma trasparente le catene del valore per capire dove si annidano gli extraprofitti (probabilmente nei produttori iniziali). In questo caso potremmo farci poco.

Nell’Adriatico, vicino a Ravenna, abbiamo fatto delle fesserie colossali: negli anni ‘70 la produzione dell’Agip raggiungeva quasi 25 miliardi di metri cubi di metano (un terzo del fabbisogno di allora). Tra nord Adriatico e canale di Otranto vi sarebbero almeno 80 miliardi di metri cubi disponibili (in totale potremmo avere riserve per 300 miliardi). Perché c’è un tabù su queste risorse?

Non ci sono soluzioni miracolistiche, la ricetta è quella di cui si parla ormai da tempo:

  • Primo, provare a ridurre i consumi, specie delle famiglie, come ha indicato il Mite, il ministero della Transizione ecologica.
  • Secondo, migliorare la diversificazione potenziando gli accordi con i Paesi esportatori attuali via tubo (come ha fatto il Governo Draghi), sperando che i patti siano rispettati: sostituire il gas russo con quello algerino o azero non è una soluzione cosi “tranquilla geopoliticamente”, sono pur sempre Paesi “critici”.
  • Terzo, aumentare le importazioni di Gnl, il gas naturale liquefatto, potenziando le infrastrutture di rigassificazione (vedremo a Piombino quanto ci mettiamo).
  • Quarto, usare tutta l’energia cha abbiamo: riaprire i canali di esplorazione e sfruttamento di gas e petrolio, usare al massimo geotermia, rifiuti (biometano, biocarburanti, inceneritori, biogas), semplificando al massimo le procedure per le fonti rinnovabili.
  • In fondo le opzioni più difficili: riaprire (transitoriamente) all’uso del carbone, ripensando la nostra strategia nucleare. Abbiamo stimato che i soli rifiuti urbani potrebbero coprire una percentuale delle importazioni di gas russo tra il 15 e il 20%.

Il price cap, il tetto al prezzo del gas, finora non è stato approvato dalla Ue. È il tentativo di un dirigismo che vuole controllare i mercati a colpi di decreto?

Si è fatta molta confusione sulla proposta di price cap europeo o anche nazionale (che suona come una parola d’ordine populista lanciata in pasto a un’opinione pubblica arrabbiata). Regolare i prezzi di fornitura definiti da contratti non è mai facile senza l’assenso delle parti. Non si capisce come la Commissione europea potrebbe farlo, se non con una legislazione “dirigistica” ma scarsamente applicabile (contenziosi, cause, rischio blocco delle forniture). Si può porre un tetto alle bollette se lo Stato si prende carico della differenza rispetto al prezzo di acquisto. Lo si è in parte fatto con i decreti del Governo Draghi e le decisioni dell’authority Arera sulle tariffe del mercato di maggior tutela. Si può anche definire un nuovo assetto di regolazione del prezzo dell’energia elettrica, oggi basato sul “marginal price” che non distingue le fonti di produzione.

Cosa dire a chi accusa gli Usa di avere sabotato il gasdotto Nord Stream?

Complottismo paranoico.

Putin e l’inflazione si possono combattere: aggiungendo altri due rigassificatori (oltre ai tre attivi e quelli previsti a Piombino e Ravenna), per importare più gas liquefatto da Egitto o Costa d’Avorio; accordandosi con Montenegro (425 miliardi di metri cubi individuati 9 anni fa) e Albania per sfruttare i loro giacimenti. Dare notizie di queste possibilità può influire sui mercati?

Come ho detto, potenziare le infrastrutture di rigassificazione ci consente di approvvigionarci di gas in un mercato globale meno rigido e monopolistico di quello delle “tubature”. Bene andare quindi verso un potenziamento. Bene anche fare nuovi accordi di fornitura con Paesi meno critici di quelli attuali. Il prezzo dell’energia è molto sensibile alle previsioni e alle prospettive future, quindi una parte della riduzione dei prezzi di Borsa può essere ottenuta con “annunci”, specie se basati su fatti concreti.

La Germania investirà 200 miliardi di euro contro la crisi energetica. Come lei ha scritto su Twitter: «Berlino può permettersi di investire 2.000 miliardi prima di arrivare al nostro debito pubblico…». La Ue non può creare una base comune di sostegno a famiglie e aziende (un Sure 2.0 di prestiti, invece di un Recovery 2.0)?

Sì, un Energy Recovery Fund, simile nell’architettura a quello fatto per la pandemia, potrebbe avere un senso come strategia europea, puntando a forme di “solidarietà” fra Paesi membri che garantiscano temporaneamente i Paesi più in difficoltà. Sarebbe auspicabile. Resterebbe un problema: l’Europa chiederebbe a questi Paesi “fragili” di attivare riforme e piani per una maggiore produzione nazionale e una maggiore efficienza. Non abbiamo solo un debito pubblico alto, abbiamo anche un debito energetico, gigantesco.

Il fracking gas, quello ottenuto dall’argilla con processi di fratturazione del terreno, è presente anche in Europa ma è stato mostrificato perché «provocava terremoti». Ora il Regno Unito ha aperto al suo utilizzo, almeno finché dura la crisi. Gli Usa col fracking gas hanno indipendenza energetica. Non potremmo utilizzarlo anche nella Ue, almeno in questo periodo?

Anche il fracking, o lo shale gas, è una delle fonti di produzione “dormiente” che dovremmo sfruttare, o almeno capire se è sfruttabile. La potenzialità italiana non è nota, probabilmente molto bassa e poco conveniente, ma andrebbe capita meglio.

Lei pensa – come me – che l’ambientalismo dovrebbe stare sopra le fazioni politiche e non avere connotazioni politiche di parte? Qual è, secondo lei, il futuro dalla transizione alle energie alternative?

Primo, fare efficienza energetica e produrre energia da fonti rinnovabili è molto bello, ma una strategia energetica seria deve basarsi su cose reali. Le rinnovabili sono discontinue e non potranno garantire il 100% dei consumi, neanche solo di quelli elettrici. Occorre una base di produzione non discontinua o una capacità di stoccaggio oggi impensabile e comunque costosissima.

La migliore energia di back up esistente è quella nucleare che non produce gas serra. Il mix ottimale sarebbe “rinnovabili/nucleare”. Il gas come fossile di transizione è ragionevole (come dice la Tassonomia europea).

Secondo: fare impianti rinnovabili si scontra in Italia con l’opposizione dei comitati del NO (sostenuti spesso da forze politiche di governo) e con le follie autorizzative, che producono tempi di autorizzazione di 10 anni invece che di 10 mesi. Chi propone di fare molto rinnovabile dovrebbe anche essere chiaro nel voler superare questi due ostacoli.

Terzo: le fonti rinnovabili non sono esenti da problemi ambientali (rifiuti, materiali rari), che vanno risolti. In energia non si fanno miracoli, la realtà è più importante dei wishfull thinkings”. Serve un ambientalismo razionale e concreto, che guardi i numeri e le soluzioni praticabili.