Economia della Conoscenza

La solitudine delle Generazioni Alpha e Zeta

Scritto il

di Alessandro Paciello

Donatella Lorato, managing director della European School of Economics e founder di Excellentia, progetto di social entrepreneurship, cioè di “responsabilità sociale d’impresa”, dedicato alle nuove generazioni, è da sempre imprenditrice con una vocazione per la formazione. L’esperienza che ha accumulato in questi anni a contatto con gli allievi l’ha portata a definire con chiarezza una sua idea su come affrontare il delicato argomento della preparazione del mondo giovanile al lavoro e alle relazioni interpersonali.

Donatella, la formazione” è più una passione o una professione, per lei?

È una professione che svolgo con grande passione. Sono curiosa di natura e l’osservazione del mondo giovanile mi aiuta a capire la società di oggi e quella di domani.

E cosa ne evince?

Intanto, che va sfatato il mito del marketing di molte aziende che millantano di “mettere l’uomo al centro”. Non solo non è vero in generale, ma non lo è per quanto riguarda in particolare i giovani, soprattutto quelli della cosiddetta generazione Alpha, cioè i teenagers.

Perché, secondo lei?

Perché è una generazione priva di interesse per le istituzioni (non ha potere di voto) e per le aziende (orientate a chi è pronto per l’inserimento nel mondo lavorativo). Questo non li mette nel mirino delle ricerche sociologiche e, di conseguenza, è un mondo che a noi adulti sfugge. Insomma, non interessante per media, mercati ed economia. C’è poi una complicazione: le Alpha e Zeta, quindi quelle che vanno dalla prima adolescenza all’uscita dal mondo degli studi, formano un cluster che in realtà comprende generazioni tra loro diverse. Quindi, non solo due – Alpha e Zeta – ma multipli, perché i ragazzi che oggi si ritrovano a frequentare i corsi liceali e universitari si vedono fra loro molto diversi. Tutto ciò dovuto a un’incredibile accelerazione degli avvenimenti che muta rapidamente i contesti e di cui risentono psicologicamente in prima persona, con relativo continuo disorientamento.

Ciò li pone già in una situazione di isolamento?

Esattamente. Fanno fatica a trovare dei simili all’interno del gruppo dei pari. Non hanno adulti significativi a cui fare riferimento. Infine, la combinazione tra pandemia, post pandemia ed enfatizzazione della digitalizzazione è, al contempo, causa ed effetto di questo isolamento, perché pone i ragazzi sotto un continuo giudizio: qualsiasi cosa loro dicono, oggi diventa voce globale e universale e questo è emotivamente impossibile da gestire.

In una situazione compromessa come quella che descrive, cosa può fare la formazione?

Intanto “ascoltare”! Da qui, si deve procedere tramite un progetto interattivo,  già parte integrante del sistema educativo anglosassone, che non è nozionistico, ma induttivo e deduttivo. Quindi, ha un approccio relazionale con il discente che aiuta nel dialogo. Io ascolto i miei allievi perché ho bisogno a mia volta di apprendere la lettura del mondo d’oggi.

Ma la generazione che tuttora dirige questo Paese secondo lei era ascoltata?

No, non lo era. Ma aveva meno paura del giudizio, anche perché non esisteva la globalizzazione del pensiero e dei comportamenti che oggi abbiamo, oltretutto in tempo reale, con l’esposizione digitale. Noi avevamo una “luce”: delle visioni e dei progetti. E urlavamo, ci agitavamo, lottavamo per seguire quella luce. Oggi, i ragazzi non hanno più questa luce perché la digitalizzazione li mantiene costantemente in uno spazio irreale privo di confronto, fondato su valori effimeri che spengono progettualità e passione. La combinazione con il non ascolto diventa drammatica.

Tornando allambito accademico e formativo, quante scuole stanno approcciando questa problematica tenendone conto nei propri ambiti didattici?

In European School of Economics lo facciamo da sempre, liberando il talento dei nostri ragazzi e facendo loro comprendere che il mondo è una nostra proiezione. Serve poi applicare questo approccio nel concreto delle azioni quotidiane, il che vuol dire rendere operative determinate corde filosofiche che, altrimenti, difficilmente vengono comprese dai giovani perché parlano un linguaggio che non è il loro.

Cosaltro?

Beh, un altro elemento di difficoltà che si aggiunge alle “non persone” e al “non tempo” è quello dei “non luoghi”. Questa è quindi la generazione dei “non”. Le città oggi non “abbracciano”. Non esistono più i luoghi di aggregazione, come gli oratori, i campi sportivi aperti, i circoli culturali o politici.

Ma i luoghi non esistono più perché i ragazzi non hanno più voglia di aggregarsi o viceversa?

Risposta difficile. I miei studenti, che hanno fra i 17 e i 23 anni, non possono essere accumunati. In questa fascia di età, seppur molto ristretta, sono già diversi fra loro, persino nell’uso dei social. Questo rende sempre più difficile il loro riconoscersi e questo, sociologicamente, è un problema enorme. Inoltre, i recenti lockdown e l’isolamento che per tutti noi ne è derivato, ha ulteriormente inasprito questa “asocialità” delle giovani generazioni. Quindi, se le amministrazioni dei centri urbani non ricominciano a porsi il tema di favorire l’aggregazione giovanile in spazi aperti e dedicati, il futuro è in solitudine. Mi chiedo però se non ci sia una vera e propria volontà politica per non favorire questa aggregazione giovanile “virtuosa”…

Ricetta?

Costruire, per esempio, un’Economia dell’Educazione, ritornando al concetto primordiale dell’economia vissuto come “casa comune”, in altre parole, la gestione dell’ambiente domestico. Fondamentalmente, dobbiamo “educare” e non “istruire”: non più quindi “Ministero dell’Istruzione”, ma “Ministero dell’Educazione”. La differenza è fondamentale: istruire significa “immettere”; educare, “tirare fuori”. Non dobbiamo considerare i ragazzi dei contenitori da riempire di nozioni. Semmai, dobbiamo accompagnarli alla scoperta dei loro talenti. Il termine “formazione”, infatti, significa “dare forma”. A cosa? Ai talenti, appunto!