Economia della Conoscenza

Libri: un Glorioso Fallimento nel nome della musica

Scritto il

di Beppe Ceccato

Questa è la storia di come una piccola etichetta musicale indipendente britannica è riuscita ad avere un’influenza duratura in ambito artistico, nonostante sia miseramente fallita dopo quattordici anni di eccessi, piccole grandi rivoluzioni culturali e un unico obiettivo: fabbricare arte.

Fernando Rennis
Fernando Rennis

Quanto basta per appassionarsi a Un glorioso fallimento – Leterno presente della Factory Records, l’ultimo lavoro di Fernando Rennis, 34 anni, giornalista musicale e scrittore.

Il 23 novembre scorso sono scoccati 30 anni dalla chiusura rovinosa della Factory Records, casa discografica che, anche dopo tre decenni, continua a lasciare tracce, influenze, cultura. Un classico caso di riabilitazione “post mortem” si potrebbe affermare.

Solo che non si tratta di una persona, ma di una società nata dall’intuizione di un visionario presentatore televisivo, Tony Wilson insieme con un attore altrettanto speciale, Alan Erasmus, a cui si sono aggiunti Peter Saville come grafico e Martin Hannett come produttore. Insieme, hanno influenzato grafica, moda, design, musica nel mondo. E anche Manchester, diventata il fulcro della musica in Gran Bretagna. «Ciò che Manchester pensa oggi, Londra lo farà domani», è il titolo di uno dei capitoli del libro di Rennis.

Un Glorioso Fallimento: gran bel libro! Perché hai deciso di scrivere sulla Factory? Ci sono saggi, testi, film, docufilm al proposito…

Ho iniziato a scrivere di musica a 21 anni dedicandomi al mondo Indie inglese. Ascoltavo gli Strokes, gli Interpol, gli Arctic Monkeys, che sono tutti figli putativi di quella casa discografica che produsse i Joy Division, i New Order, gli Happy Mondays. Non racconto la storia dell’etichetta, piuttosto la legacy, l’eredità che questa ha lasciato nel mondo dell’arte e non solo della musica.

Negli anni mi sono reso conto di essermi circondato di cimeli della Factory, dischi, vinili, libri. Così ho scritto a Simon Reynolds, critico musicale del New York Times, uno dei massimi esperti di punk e post punk al mondo, e l’ho intervistato. Ho sentito anche Peter Hook, mitico bassista dei Joy Division, una chiacchierata di due ore e mezza. Avrei potuto scrivere un libro solo con quell’intervista, ma ho deciso di affidargli la prefazione.

La Factory è stata un’esperienza di vita, di anarco-capitalismo, dove il profitto era l’ultimo pensiero dei soci. In pieno spirito Factory, Alan Erasmus nel maggio dello scorso anno è volato a Kiev ad aiutare dopo l’invasione russa.

Ha dichiarato alla stampa: «Forse anche una persona sola può fare la differenza!». Per questo era unazienda destinata a fallire?

Ho voluto mettere in evidenza come una piccola etichetta appena nata avesse mancato il primo obiettivo, e cioè sopravvivere, e nello stesso tempo cercato di capire perché sia stata così influente negli anni. L’estetica dell’etichetta – è questo il fatto straordinario – è finita sulle passerelle di mezzo mondo. Virgil Abloh, allora direttore artistico della collezione maschile di Louis Vuitton, dichiarò che la Factory aveva influenzato il suo lavoro. Così anche Raf Simons, direttore creativo di Prada.

Oltre che unetichetta è stata lanima di un locale famosissimo, The Haçienda, che ha contribuito a trasformare Manchester in un polo della musica e della contro-cultura in pieno Thatcherismo. A questo proposito: perché secondo te gli italiani sono così sensibili alla musica british di quel periodo?

Perché abbiamo vissuto storie piuttosto simili. Lì c’erano le bombe dell’Ira, il terrorismo, un potere conservatore, qui il terrorismo rosso e nero, parti deviate dello stato. C’era bisogno di evadere, era il periodo dei Figli delle stelle di Alan Sorrenti, nel ‘76 si tenne l’ultima edizione del Re Nudo Pop Festival al parco Lambro, con cui si chiuse il periodo dei figli dei fiori. Anche in Inghilterra, come ricorda Jon Savage in England’s Dreaming, in quegli anni si registrò la crisi degli hippy e la nascita di una musica e di un movimento, il punk, di rifiuto della società.

Da noi il punk ha avuto una forte espressione, per certi versi più radicale di quello inglese. Negli anni Settanta, poi c’è stata la crisi energetica che aveva colpito tanto l’Inghilterra quanto l’Italia. Gli slogan della Brexit sono gli stessi del Thatcherismo. Non siamo poi così lontani da allora…

Se in Inghilterra c’è stata una risposta simile al punk in Italia non vedo grandi sommovimenti.

Nel Regno Unito ci sono gruppi post punk che reagiscono al mainstream con un genere cacofonico, non accomodante, come i Fountain DC, gli Idles o i nuovi Yard Act. In Italia si tende a essere conservatori senza conservare. Il fatto è che allora c’era un’idea di futuro che oggi non riusciamo più a immaginare.

Tornando alla Factory: possiamo dire o fai cultura o fai soldi?

La Factory fallì perché aveva un buco di tre milioni di sterline. Soldi spesi dissennatamente, ma con l’intenzione di fare cultura. La parabola dell’etichetta sta nella frase di Wilson: «I musicisti possiedono tutto, la società nulla. Tutte le nostre band hanno la libertà di levarsi dalle palle». D’altronde, alcune persone fanno i soldi, altre la Storia!