L'editoriale

Manifesto per la sopravvivenza

Scritto il

di Claudio Braschino

Breve, brutta e calda, in tutti i sensi. Mentre andiamo in stampa si avvia alla conclusione la più sconclusionata campagna elettorale di sempre. Nessuno si offenda nello specifico, ma il mix alchemico politico è stato surreale, tra ombre russe e dossier americani, paranoie fasciste e fake news sulla democrazia in pericolo. Pur immersi nell’Infosfera descritta dal filosofo à la page Floridi, ovvero nel dominio inarrestabile delle ICT, Information and Communication Technology, solo brandelli di informazioni reali sono piovuti nei cervelli dal cielo di carta della comunicazione perenne.

Per bucare quel cielo, rispettando le regole del weekend del silenzio, ci siamo affidati alla politica non ufficiale, ma a quella della polis, quella che si occupa dei problemi reali dei cittadini, i membri in carne e ossa di una democrazia. Poi si voterà (in attesa del prossimo numero faremo uno speciale sulla nostra versione web) e poi ci sarà un nuovo governo. Ad esso, in una sorta di lettera-manifesto, si rivolgono tramite il nostro Settimanale e la nostra inchiesta, gli imprenditori delle Pmi, mettendo nero su bianco il loro coraggio nell’affrontare questa crisi ma anche i loro problemi quotidiani e di sistema.

Una denuncia civile e dunque pericolosamente sovrastata dal flusso selvaggio di chi urla di più. Niente vittimismo però, i numeri come vedrete sono ancora incoraggianti, l’industria manifatturiera italiana è vitale e competitiva sul mercato estero. Anche l’innovazione e la qualità intellettuale del Capitale umano segnano punti in attivo, ma la vera questione è quella accennata già nel nostro dossier sul Pnrr: tra le aziende e la politica c’è un buco linguistico, un equivoco antropologico (l’impresa nemica dello Stato), un’assenza di dialettica proficua al di là di quattro ricette di buon senso condivisibili ma troppo generiche e poco approfondite nei rari confronti elettorali sui contenuti economici.

Ancora una volta il mondo delle Pmi, l’architrave occupazionale e produttiva del Paese, quello della fondamentale terra di mezzo tra la stragrande maggioranza dei troppo piccoli e la minoranza dei troppo grandi, se ne sta per conto suo, le maniche vere e metaforiche rimboccate e uno sconsolato urlo di dolore perso nella valle silenziosa della Repubblica. Però l’eco arriva, a chi lo vuole sentire, a chi se ne vuole occupare, a chi mette un microfono o un telefono lì dove lo deve mettere un giornalismo non eroico, ma almeno onesto.

Caro governo che verrai con l’anno nuovo della democrazia, per parafrasare il grande Lucio Dalla, le maniche stavolta te le dovrai rimboccare per davvero. I soldi stanziati per il digitale e la transizione ecologica dovranno realmente traghettare le nostre imprese nel futuro senza morti e feriti per strada. Sulle tasse bisognerà smettere di giocare all’erba voglio, che si sa non cresce neanche nel giardino del re. Sento parlare del taglio al cuneo fiscale da quando avevo tutti i capelli neri e molti chili in meno, una congiuntura fisica di tanti anni fa, purtroppo. E poi l’insofferenza per la burocrazia, mantra ricorrente di tutte le interviste agli imprenditori. Una grigia sterminata nuvola kafkiana che nessuna riforma della semplificazione, un must delle richieste europee oltretutto, riesce a diradare.

Qualche volta i piccoli gesti, se ripetuti da tutti, aiutano. Propongo allora di semplificare il discorso togliendo la parola semplificazione, una vendetta formale, non risparmieremo tempo e quattrini, ma almeno un sospiro per la tastiera e per le orecchie. Ho lasciato apposta in fondo il caro energia, il tema dei temi, pure per te caro governo che verrai. Anche qui, mentre ne parliamo tutti i giorni le bollette continuano ad aumentare. Non sapendo che fare di preciso, giochiamo con l’Europa come il Sisifo di Camus, che portava il masso in cima e quasi rideva nel suo infinito ri-discendere. Buttiamo la palla sulla tribuna di Bruxelles per andare sempre a riprenderla senza mai cambiare in meglio la nostra condizione. Solo che a Camus hanno dato il Nobel, noi rischiamo la fame.