Finanza e Risparmio

SVB e il vizio della finanza Usa

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di Mariarosaria Marchesano 

Se la finanza americana fosse un lupo si potrebbe dire che perde il pelo ma non il vizio. Per la verità, il cinema ha già raccontato i “lupi” di Wall Street, storie di spregiudicati broker degli anni Ottanta, e le serie tv hanno svelato i diavoli, banchieri d’affari che in anni più recenti erano pronti a scommettere sul default di Paesi come l’Italia pur di gonfiarsi di profitti. Proprio quando tutto questo sembrava archiviato nel più fantastico degli immaginari, ecco che dagli Stati Uniti arriva una nuova incredibile storia di finanza che potrebbe diventare la prossima trama di un film: il crac della banca che ha fatto la fortuna della mitica Silicon Valley.

Certo, la Svb non è tra le prime del Paese, com’era Lehman Brothers nel 2008, ma la sedicesima, il che vuol dire comunque un’ottima posizione per le dimensioni del credito americano, e poi con un azionariato blasonato, costituito dai numeri uno degli investimenti: Vanguard, State Street, BlackRock e Jp Morgan, solo per citare i più famosi.

Il rischio di un contagio di sistema è stato sventato da un intervento tempestivo e coordinato tra Casa Bianca, Federal Reserve e Sec, l’autorità di vigilanza. Sono stati assicurati i depositi dei clienti della Svb e offerto prestiti alle altre banche regionali che finanziano start up tecnologiche e che sono entrate in crisi per le stesse ragioni: l’impatto dell’aumento dei tassi d’interesse e la carenza di regole di vigilanza per il mantenimento dei coefficienti di liquidità. Regole che in Europa sono rispettate, non senza insofferenza, dall’universalità delle banche e che negli Stati Uniti valgono solo per le grandi perché si tende a garantire un maggior grado di flessibilità al sistema.

L’innovazione è il vanto d’America e non si possono mettere troppi vincoli a chi presta soldi a quelle che potrebbero diventare le future Apple o Facebook. L’approccio culturale è che si possono e si devono prestare i soldi anche a un imprenditore fallito più volte, se questo ha una buona idea. La Silicon Valley è stata fondata su questo principio. Peccato che nessuno si fosse accorto che la politica monetaria della Fed, diventata più restrittiva, stava avendo un impatto negativo sia sulle imprese hi tech, per l’aumentato costo del debito, sia sul bilancio di Svb, pieno zeppo di titoli di Stato. L’accertamento di un buco da 2 miliardi di dollari, il suo mancato ripianamento e l’ondata di deflussi di depositi si sono susseguiti alla rapidità della luce e la notizia di un crac finanziario americano in arrivo ha fatto il giro del mondo. Così lo scorso weekend di marzo, gli investitori (soprattutto europei) se lo ricorderanno a lungo per la grande paura che hanno avuto di rivivere l’incubo Lehman Brothers, la storia delle storie la cui origine nei mutui immobiliari è stata ricostruita nel film La grande scommessa, diretto da Adam McKay.

Del resto, generare titoli derivati da prestiti per le case e venderli in tutto il mondo che cos’è se non un gioco d’azzardo?

Il presidente americano Joe Biden ha voluto evitare l’errore del 2008, quando il governo federale (a cavallo tra le presidenze Bush e Obama) decise di lasciare al suo destino la banca d’affari innescando una delle più grandi crisi finanziarie della storia. E ha voluto anche evitare che si ripetesse un’altra vicenda di finanza americana poco edificante, che pochi ricordano oggi, quella di Long term capital management, un fondo speculativo costituito da nomi eccellenti del mondo accademico ed economico, che alla fine degli anni ‘90 ebbe una grave crisi di liquidità rischiando di contagiare Wall Street (un intervento dell’allora presidente della Fed, Alan Greenspan scongiurò il peggio). Biden, che ha già un grande problema con il raggiunto tetto del debito pubblico (i repubblicani non lo vogliono innalzare facendo presagire difficoltà di copertura delle spese già nei prossimi mesi) si è rivolto alle autorità monetarie e di vigilanza per mettere in atto un piano che non ha voluto chiamare di “salvataggio” proprio per non evocare la ricaduta sulle tasche dei contribuenti.

Comunque sia, la Svb è stata salvata, così come la Signature Bank, mentre le altre del settore in difficoltà sono state aiutate in vari modi. Insomma, la mina è stata disinnescata, ma restano le domande sulla sostenibilità di un modello che ciclicamente produce un crack, un rischio sistemico, uno scandalo finanziario.

La colpa, comunque, non è tutta della carenza di regole. In questi giorni Moody’s ha spiegato che le banche europee hanno una struttura di bilancio che limita il rischio di contagio da crisi e questo perché, sostanzialmente hanno una percentuale limitata di titoli di Stato nei bilanci rispetto alle banche americane. Il che fa la differenza: quando i tassi salgono il valore di mercato dei titoli diminuisce. Per chiunque non è un problema se si tengono fino alla scadenza. Ma se si è costretti a venderli per bisogno di liquidità si produce una perdita matematica. Così nasce il buco di Svb, da un’inversione di rotta della politica monetaria che regole di vigilanza più stringenti avrebbero costretto a colmare ai primi segnali. Che nessuno abbia visto arrivare questa crisi è molto difficile da credere. Mentre viene spontaneo pensare che il lupo americano perde il pelo ma non il vizio.