Finanza e Risparmio

Troppe riunioni inutili, la felicità è saper delegare

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di Antonio Dini  – Giornalista e scrittore

Pochi giorni fa ero in treno che stavo tornando da Napoli a Milano: poco meno di cinque ore abbastanza comode, grazie all’alta velocità, in cui ci si può concentrare e lavorare, anche se la connessione internet a tratti è problematica. La persona accanto a me, però, doveva avere un telefono baciato dalla fortuna, perché ha passato più di tre ore collegato a una call che sembrava più una maratona che non un impegno di lavoro. iPhone sul tavolo, cuffie con il cavetto interveniva sporadicamente e, da quel che potevo capire, più che altro per rilanciare la palla dall’altra parte che non per proporre soluzioni o fornire consigli.

Il mio ignaro vicino di poltrona mi ha fatto pensare al senso delle riunioni e a quanto queste dicono di noi. Secondo un’indagine rilasciata da Microsoft, in azienda passiamo più tempo a parlare tra di noi che non a fare concretamente qualcosa. Si passano 8,8 ore alla settimana leggendo e scrivendo e-mail e altre 7,5 ore in riunione. Nel complesso, quasi due terzi del tempo (57%) se ne va tra riunioni, e-mail e chat. Non è finita: per più della metà delle persone è impossibile avere un confronto costruttivo nelle riunioni soprattutto virtuali, è difficile stare al passo se non si arriva in tempo e spesso è difficile anche solo capire quali sono gli obiettivi dell’incontro.

Insomma, facciamo riunioni inutili perché non si capisce di cosa si deve parlare, quando ne parliamo non siamo efficaci e comunque ci perdiamo pezzi per strada. In teoria, sapendo queste cose, dovremmo vietare le riunioni di lavoro se non in casi estremi di vita o di morte. Invece, le moltiplichiamo con Zoom e Teams. E devono partecipare tutti (sennò si “perde il controllo”) senza discriminare e tirando a bordo più persone che si può. Tanto poi le decisioni il capo le ha già prese la mattina al bar con il suo vice.

Le riunioni sembrano essere diventate un’attività dannosa in azienda. Soprattutto per chi deve materialmente “costruire” i prodotti dell’ufficio: relazioni, report, piani strategici e operativi, fascicoli vari. Invece, il lavoro (sia tradizionale sia smart) è diventato una specie di percorso a ostacoli fatto di micro-interruzioni (notifiche, e-mail, messaggi, telefonate, colleghi che ci distraggono) e macro-interruzioni (riunioni). Non c’è un coach che non sappia che seppellire i dipendenti di riunioni non solo ostacola la loro capacità di fare il lavoro che devono fare (banalmente non c’è tempo) ma crea anche la procrastinazione, che non è pigrizia ma paura di non essere all’altezza, o l’ansia della fatica.

Se gli open space servono anche a evitare che uno legga il giornale chiuso nella sua stanza, dall’altro rendono impossibile portare avanti un pensiero o scrivere più di una frase per volta. Se il bisogno di coordinamento assicura che le risorse in smart working non si perdano via a casa loro, dall’altro trasforma il lavoro in una specie di psicoterapia di gruppo a distanza.

Qual è la cura? Sarò banale, ma penso sia necessaria la moderazione. E sicuramente non call che durano più di tre ore perché, a meno che non stiate lavorando a distanza con un’equipe che fa un trapianto di cuore, i casi sono due: o il vostro contributo è così importante che l’azienda dovrebbe preoccuparsi anche di cosa mangiate (se state male voi poi si ferma tutto), o è arrivato il momento che vi fate uno di quei corsi che insegnano a delegare e vi rilassate un po’. Sul serio.