Inchieste

Clima, conto da 200 miliardi per adeguare l’economia

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di Laura Siviero

Diretti o indiretti, i costi del climate change pesano sulle imprese italiane, soprattutto le medio-piccole. Governi e istituzioni internazionali hanno promosso iniziative multilaterali per definire obiettivi condivisi (Protocollo di Kyoto, Accordo di Parigi, COP27) e l’Unione Europea ha adottato policy particolarmente incisive, culminate con il Green Deal del 2019, ma non tutti i settori sono pronti o sono d’accordo.

Infrastrutture da riadattare, nuovi impianti per l’efficientamento dall’energia alle irrigazioni, la lista nera dei fitofarmaci che determina la perdita di molte colture. Le aziende si trovano strette tra eventi climatici catastrofici che vanificano gli sforzi, il cambiamento dei gusti dei consumatori sempre più attenti alla sostenibilità e policy restrittive che impongono la svolta green.

Il Pnrr ha dedicato il 40% delle risorse al contrasto al cambiamento climatico, ma spesso le aziende non sanno dove e come attingere ai fondi.

Una transizione necessaria

Non tutti i settori sono pronti al cambiamento, spesso manca consapevolezza. L’indagine compiuta dal Forum per la Finanza sostenibile in collaborazione con il Cerved Group e Cerved Rating Agency, su un campione di 415 Pmi, mostra che circa il 40% delle imprese intervistate non sa stimare l’entità della propria esposizione. Un dato che illustra come molte aziende non abbiano ancora iniziato un percorso verso la sostenibilità. E non conoscono i finanziamenti a cui potrebbero accedere. Circa il 70% delle società intervistate si rivolge abitualmente a istituti di credito, solo il 17% ha usufruito di finanziamenti legati a progetti di sostenibilità. Sono soprattutto le Pmi del settore logistico e le utility ad aver richiesto tale supporto. E oltre il 55,5% si dichiara “poco informato” in merito alle opportunità del Pnrr.

«Il primo passo per le Pmi – dichiara Francesco Bicciato, direttore generale del Forum per la finanza sostenibile – è valutare il divario tra la situazione attuale e i nuovi standard richiesti dalla CSRD (la direttiva europea sul reporting di sostenibilità delle imprese, entrata in vigore lo scorso 5 gennaio). Poi verificare di avere le infrastrutture adeguate di raccolta e gestione dei dati, per misurare e monitorare gli impatti delle attività dal punto di vista ambientale e sociale. Infine, ricordare il ruolo dell’engagement, uno strumento prezioso a disposizione degli investitori che si ispirano ai criteri ESG per spingere le aziende a migliorare le performance di sostenibilità e creare valore nel medio-lungo periodo».

Gli eventi fisici estremi, dalle alluvioni alle frane rappresentano una seria minaccia anche a livello sociale e finanziario. Sulla base del ‘Climate Stress Test’ della Bce, la Cerved ha condotto un analogo esercizio sulle Pmi italiane alla luce delle ripercussioni della crisi climatica: dalla ricerca – che tratteggia tre possibili scenari: transizione ordinata (regolare, con i maggiori investimenti nel primo decennio.); transizione disordinata (interventi posticipati nel 2030-40); scenario “serra” (scarsi interventi e aumento della frequenza e della severità degli eventi fisici) – emerge che entro il 2050 le piccole e medie imprese dovranno investire 203 miliardi di euro nella transizione, di cui due terzi già nel primo decennio. E chi non interverrà per tempo sui rischi fisici, tra trent’anni avrà il 25% in più di probabilità di default rispetto a oggi.

Senza contare tutte le altre possibili variabili – segnala Banca d’Italia in una recente ricerca –  legate all’aumento di temperatura, con soglie di tolleranza critiche per lo svolgimento di alcune attività umane, l’aumento degli infortuni sul lavoro, il calo del Pil Agricoltura e turismo.

Invernale i settori più a rischio

Meno consapevole e più a rischio il settore agricolo che pesa per solo per il 2,2% del Pil (2022), sottolinea ancora Banca d’Italia, ma svolge un ruolo significativo come fornitore di input intermedi per altri comparti rilevanti per l’economia nazionale, quali l’agroindustria e il settore alberghi e ristoranti. Si stima che le aziende agricole perderanno tra l’8 e il 25% del valore dei terreni nei prossimi anni. «Il settore agricolo si adatta male ai cambiamenti nel brevissimo periodo – dichiara Roberto Gelfi presidente di Confagricoltura Parma e della sezione lattiero casearia di Confagri Emilia Romagna – soprattutto normativi. L’uso della chimica non si può eliminare senza un piano B, i problemi rimangono. Finirà che l’industria alimentare acquisterà le produzioni fuori dal territorio europeo, con buona pace di tutti. I tempi sono importanti in agricoltura, un conto è adeguarsi in 5 anni altro in 10 anni, può cambiare in modo significativo. La sostenibilità ambientale non va considerata avulsa dagli altri temi sociale ed economico».

Il settore della frutta ha subìto gravi perdite in termini di fatturato e posti di lavoro. «Il cambiamento climatico ha aumentato la virulenza dei patogeni – spiega Luca Chiericati agronomo della cooperativa La Diamantina nel ferrarese – siamo molto sotto pressione, il controllo è sempre più difficoltoso. Il green deal ha messo nella lista nera molti prodotti, fondamentali per contrastare gli insetti aggressivi». Gli agricoltori, inoltre, specie i piccoli, si assicurano solo dopo aver subìto un grave danno da un evento eccezionale, segno della scarsa presa di coscienza dei rischi a cui sono esposti. Un’ altra delle ragioni risiede nei costi elevati delle polizze che, riuscendo difficilmente a calcolare tutti i rischi dei piccoli agricoltori, determinano prezzi che risultano inaccessibili alle piccole imprese.

La riduzione e rarefazione delle nevi mettono poi in pericolo anche il settore del turismo invernale. Prima della pandemia il 13% dei pernottamenti era concentrato nelle zone di montagna. Con una spesa di 2 miliardi. Le proiezioni stimano un calo del 30-40% nei prossimi 80 anni. Qui, le contromisure sono rappresentate spesso dalla diversificazione dell’offerta come strutture alberghiere, stagioni teatrali, spa, attrazioni culinarie.

Meno imprese, meno fatturato e occupazione

Gli effetti dei cambiamenti climatici non si limitano alla conta dei danni ma hanno conseguenze a medio e lungo termine. Le imprese, in particolare Pmi, localizzate in comuni colpiti da frane o alluvioni, hanno in media registrato una probabilità di fallimento superiore del 4,8% – sempre secondo i dati di Banca d’Italia – rispetto alle aziende in comuni non colpiti. E anche nei tre anni successivi i fatturati sono inferiori del 4,2% rispetto a chi non ha subito danni. Dall’anno successivo all’evento si assiste anche al calo del numero di dipendenti dell’1,9% per 4-5 ulteriori anni.

I green job

Se è vero che i costi gravano sulle aziende, si profilano opportunità nuove e nuovi lavori green. Figure professionali in grado di promuovere e difendere l’ambiente, dall’Esg manager (Environmental, Social e Governance) per favorire la riduzione dell’impatto ambientale delle aziende, al risk manager, al progettista di sistemi di gestione ambientale o l’euro-progettista.

Vedremo se le aziende riusciranno a trovare le nuove figure specializzate.