Inchieste

Con o senza scrivania: chi decide in azienda?

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di Antonio Dini

Lo smart working divide in due le aziende. E non perché metà delle persone sono a casa e metà in ufficio. Invece, a essere divisivo è lo scontro tra culture del lavoro diverse e incompatibili: quella del tutto in presenza e quella “agile” che alterna il tempo in ufficio con quello fuori. E questa spaccatura sta creando più problemi di quanti ne dovrebbe risolvere.

Se il Covid e il lockdown hanno fermato il pianeta, portando milioni di lavoratori dipendenti dall’ufficio al tavolo della cucina in casa, con Pc di fortuna e connessioni spesso malfunzionanti, la fase successiva sta invece dimostrato a molti, dirigenti e dipendenti, che sono possibili anche altri modelli organizzativi di quella cosa non meglio identificata che si chiama “lavoro ibrido”. Questo approccio, che segue modelli diversi e strade alternative talvolta anche semplicemente impossibili da trasferire da un settore all’altro, ha però anche aperto un vuoto tra le aspettative di molti e i reali cambiamenti da parte delle organizzazioni.

Nel 2020, durante il lockdown, le persone che in Italia hanno lavorato da remoto sono state oltre 6,5 milioni, circa un terzo dei lavoratori dipendenti. A oggi, finito lo stato di emergenza, i provvedimenti per il ritorno in presenza nelle pubbliche amministrazioni e il termine del regime semplificato nel settore privato, i lavoratori agili complessivi sono meno di 3,6 milioni.

Quello in corso è un dibattito acceso, con pochi punti in comune, tra aziende, organizzazioni sindacali, intellettuali ed esperti. C’è chi sostiene che la trasformazione digitale passi attraverso un ripensamento del modo con il quale si lavora in ufficio e chi, più pragmaticamente, afferma che arrivare la mattina e non sapere su chi è effettivamente operativo rende più difficile se non impossibile fare impresa. Nel mezzo, concezioni diverse di cosa sia il lavoro, di quali siano le aspettative, di come sia possibile organizzarsi nell’epoca di ChatGPT e del Metaverso – espressioni massime di quella digitalizzazione che sta stravolgendo i modelli a cui siamo abituati senza però che emergano delle alternative altrettanto solide – stanno creando migrazioni di dipendenti e svuotando di talenti interi settori. Il problema sul tavolo? Non sono i salari, ma, secondo il 67% di chi ha dato le dimissioni, il tempo e la qualità della vita.

Anche i grandi capitalisti americani su questo tema sono divisi: tra i contrari allo smart working ci sono il mercuriale Elon Musk (Tesla e Twitter), Jamie Dimon, numero uno di JPMorgan Chase («lo smart working limita la capacità di apprendimento e crescita delle nuove assunzioni»), Marissa Mayer, ex ceo di Yahoo («da remoto si collabora meno e si è meno creativi») e Reed Hastings, ceo di Netflix («la nostra cultura è basata sulla collaborazione e l’innovazione in ufficio, non da casa»); dall’altro lato dello schieramento Tim Cook, capo di Apple, ha dichiarato che dopo la pandemia lo smart working rimarrà parte importante del tempo di chi lavora per Apple. E per Mark Zuckerberg il lavoro da remoto «diventerà la norma per il 50% del personale di Meta nei prossimi anni». Infine, Jack Dorsey, che ha fondato e guidato Twitter prima di Musk, ha sempre detto che per lui «il lavoro da remoto deve essere una componente permanente della cultura aziendale».

Un terzo dei lavoratori dell’Eurozona, secondo uno studio della Bce, vorrebbero lavorare per più giorni da casa o comunque da altri posti di quanto i datori di lavoro non siano disponibili a concedere. Per una percentuale significativa la mancanza di flessibilità è addirittura una ragione sufficiente per mettersi a cercare un altro posto o per non accettare una nuova posizione. Benefici come l’auto, il telefono, il computer portatile e la mensa interna non sono più considerati i punti forti delle offerte di lavoro.

D’altro canto, secondo un rapporto dei Wellable Labs, l’87% delle grandi aziende ha fatto investimenti sull’organizzazione di pacchetti di benefit da fruire digitalmente e meno ad esempio su benefit da fruire in presenza, quali le cucine per fare pranzo negli spazi comuni. Le grandi corporation, insomma, si lamentano dello smart working ma disincentivano il lavoro in presenza per tagliare sui costi e allentare anche la presa, ormai sempre più insicura, dei sindacati.

Inoltre, dice un altro studio condotto dagli osservatori del Politecnico di Milano, lo smart working piace sempre meno soprattutto alle Pmi italiane. Se è vero che ormai è presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021), in media con 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese e progetti sempre più complessi, nelle Pmi è tutta un’altra musica. Per i piccoli infatti lo smart working nello stesso periodo è passato dal 53% al 48%, con 4,5 giorni al mese in media. Una cultura del controllo dei dipendenti e della percezione dello smart working come “soluzione d’emergenza” rispetto a una normalità in ufficio blocca sul nascere le iniziative da parte dei piccoli imprenditori. E la pubblica amministrazione segue una filosofia analoga, anche con le disposizioni ministeriali successive alla fase della pandemia: la media di lavoro remoto al mese è di 8 giorni nel 47% degli Enti (erano il 67%).

Il cambiamento, però, secondo altri è inevitabile:

La vita di ufficio era organizzata con il modello della fabbrica», dice Sohail Inayatullah, docente universitario a Taiwan e Sydney, e titolare della cattedra dell’Unesco sugli Studi sul Futuro. «Oggi in Europa – dice – la fabbrica non esiste praticamente più o si sta robotizzando. Il futuro del lavoro intellettuale non è la retribuzione basata sul quantitativo di tempo e di fatica, ma sulle competenze e gli obiettivi che si raggiungono.

Difficile però che la cultura del lavoro a distanza, basato su fiducia e obiettivi di progetto, attecchisca da noi, visto che il nostro è anche il Paese degli straordinari non sempre pagati. Secondo Eurostat, in Italia circa 2 milioni di lavoratori restano sul posto di lavoro per 50 ore a settimana, contro le 40 ore previste, ovvero 8 ore al giorno per 5 giorni. Si tratta del 9,4% del numero degli occupati totali, che corrisponde a circa 23 milioni di persone. Un dato che supera la media europea, che si attesta al 7%. Fanno più straordinario di noi solo Grecia (12,6%), Portogallo (9,4%) e Irlanda (9,1%).

Questo, assieme ad altri fattori, provoca un calo nell’engagement sul lavoro, cioè l’impegno per il quale l’Italia è fanalino di coda in Europa ma che è diventato un problema planetario sotto il nome di “quiet quitting”, il lasciarsi andare sul lavoro. Secondo l’indagine “State of the global workplace 2022” della società americana di analisi e consulenza Gallup, la percentuale media di engagement a livello globale è scesa al 21%; negli Stati Uniti almeno la metà degli americani sembra composta da quiet quitters, mentre l’Europa è ultima tra i continenti per coinvolgimento sul lavoro, con una percentuale del 14%.

L’Italia si colloca all’ultimo posto in Europa, con una percentuale di engagement del solo 4%. Lavoriamo tantissimo ma male e non ne possiamo più.

Se il timore di assenteismo, demotivazione o la piaga del secondo lavoro frena molte aziende davanti all’idea di togliere la presenza in ufficio, è anche vero che lo smart working sta aiutando l’entrata nel mercato di molte donne. Andando a leggere i dati Istat degli ultimi 20 anni, dal 2003 al 2021, la percentuale di donne impiegate in uffici in Italia è aumentata del 5,5%. Nel 2003, il tasso di attività femminile in uffici era del 56,2%, mentre nel 2021 è salito al 61,7%, in parte grazie anche allo smart working. Si tratta di alcuni milioni di lavoratrici in più, che non potrebbero conciliare i tempi di lavoro e di vita senza la flessibilità del lavoro da casa.

Ma la divisione tra aziende che vogliono cambiare il modo di lavorare e integrare lo smart working assieme ad altre innovazioni organizzative e strutturali è solo una parte del problema. Dietro c’è la frammentazione del patto sociale in Italia, dice Alec Ross, esperto americano di politiche tecnologiche che è stato consigliere di Hillary Clinton e Barack Obama e che studia da tempo l’Italia (dove passa vari mesi all’anno).

«È per questo che è necessario un nuovo patto sociale», scrive nel suo ultimo libro, “I furiosi anni venti”. L’idea che nei Paesi occidentali, si debbano ripensare i fondamentali come il lavoro, l’educazione, i consumi, il tempo libero, tocca in maniera bipartisan tutti gli schieramenti: sia chi vuole organizzazioni centrate e ben organizzate sia chi preferisce un approccio “agile” in cui conta la fluidità e capacità di risposta in ambienti e mercati sempre più imprevedibili.

Il problema è che non esiste una risposta chiara e sicura a queste domande. In parte perché settori diversi richiedono modelli di lavoro differenti. In parte perché la trasformazione digitale intesa come processo di rinnovamento e aggiornamento culturale delle aziende è molto indietro, e alle volte viene intesa male, realmente o in malafede. E all’orizzonte non ci sono modelli concreti che possano andare bene in settori diversi, almeno nel breve periodo. Il risultato? È paradossale.

L’Italia è divisa in due non sull’idea di dover lavorare ma su chi debba scegliere il dove e il quando per farlo: il datore di lavoro o il dipendente?