Inchieste

Italia all’estero: mille miliardi ma pochi aiuti alle piccole imprese

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di Federico Bosco

L’Italia ha un’economia altamente globalizzata, la terza più grande dell’Unione europea e l’ottava del mondo in termini di Pil che fa del Paese un membro influente del G7 e del G20. L’anno scorso i maggiori partner commerciali in ordine di quota di mercato nelle esportazioni italiane sono stati la Germania (12,4 per cento), gli Stati Uniti (10,4), la Francia (10) e la Spagna (5,1); mentre i principali Paesi di provenienza delle importazioni in Italia sono stati la Germania (13,9 per cento), la Cina (8,8), e la Francia (7,4). Ma al di là dei numeri sull’interscambio commerciale, quanto vale l’internazionalizzazione delle imprese italiane?

Stabilirlo con precisione non è semplice. I dati sui volumi dell’export e dell’import diffusi puntualmente dall’Istat sono ben definiti, ma non forniscono un quadro esaustivo della presenza italiana all’estero poiché non tengono conto del giro d’affari prodotto dalle società a controllo italiano localizzate all’estero. L’Annuario Istat-Ice sul “Commercio estero e attività internazionali delle imprese 2022” pubblicato ad agosto dell’anno scorso fornisce un quadro relativamente aggiornato.

Lo studio definisce la presenza delle imprese a controllo italiano all’estero “rilevante e geograficamente diffusa”. Nel 2019 le controllate italiane erano 24.765 diffuse in 174 Paesi, occupavano circa 1,6 milioni di persone e hanno fatturato in totale 567 miliardi di euro. Si può affermare ragionevolmente che l’internazionalizzazione delle aziende italiane ha un valore superiore ai mille miliardi di euro all’anno se si sommano questi numeri al valore dell’export italiano, nel 2019 pari a 480 miliardi ma dal 2021 stabilmente superiore ai 500 miliardi e in costante crescita: nel 2022 ha superato per la prima volta i 600 miliardi (anche se poi nell’aprile 2023 è calato, si veda l’altro servizio a pagina 15).

L’Europa è di gran lunga la principale area di internazionalizzazione delle imprese italiane, con un ruolo crescente del Nord America e dei Paesi emergenti. Le tensioni geopolitiche innescate dall’invasione russa dell’Ucraina spingeranno le imprese italiane a orientare i propri investimenti in Paesi perlomeno non ostili all’Occidente, ma come risulta dai dati del 2015 le imprese italiane si stavano rivolgendo in misura maggiore verso le Americhe e i Paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) ben prima del Covid e della guerra.

Ma in generale, il sistema pubblico aiuta le imprese italiane a internazionalizzarsi? La risposta breve è sì, anche non abbastanza, soprattutto in termini di coordinamento strategico e accessibilità alle tante iniziative.

Aumentare la presenza nei mercati esteri dell’Italia è una delle principali missioni del ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale (Maeci), che per adempiere a questo compito mette a disposizione degli operatori molteplici strumenti e attività che offrono un approdo sicuro alle imprese che vogliono internazionalizzarsi, insieme ai servizi e alle risorse mobilitate dall’Ice – ovvero l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese – e dalle società partecipate come Simest, Sace e Invitalia.

Nel 2021 i finanziamenti agevolati per l’internazionalizzazione ammontavano a 3,4 miliardi di euro e le risorse per il sostegno all’export hanno superato i 5 miliardi. Nel 2022 la Sace ha mobilitato risorse per 54 miliardi. Invitalia, che concentra nel Mezzogiorno una parte significativa del suo impegno, nel periodo gennaio-aprile di quest’anno ha finanziato 1.453 start-up innovative e 18mila Pmi, concedendo agevolazioni per 4,1 miliardi di euro e attivando investimenti per 11,3 miliardi.

Anche scavando all’interno di missioni e obiettivi del Pnrr è possibile individuare lo sforzo del governo per l’internazionalizzazione delle imprese, con uno stanziamento di 1,9 miliardi di euro inserito nell’Investimento 5 finalizzato a finanziare gli investimenti delle Pmi (principalmente in sostenibilità e innovazione) e alla competitività e resilienza delle filiere.

Sempre nel quadro del Pnrr, il Maeci è inoltre responsabile della misura “Rifinanziamento e ridefinizione del Fondo 394/81 gestito da Simest”, che ha l’obiettivo di sostenere la transizione digitale e la sostenibilità ambientale delle Pmi con uno stanziamento complessivo di 1,2 miliardi.

Il sistema pubblico quindi mette a disposizione delle imprese una vasta offerta di programmi e servizi, ma troppo spesso i fondi per le singole misure sono limitati e si esauriscono in fretta, mentre tante piccole imprese non riescono ad  fruirne per mancanza di informazioni o di competenze amministrative necessarie a stare dietro a bandi e progetti.

Per orientarsi meglio il ministero delle Imprese e del made in Italy (Mimit) ha messo a disposizione il portale “Incentivi.gov.it”, nel tentativo di promuovere in un modo più fruibile la conoscenza degli incentivi disponibili, compresi quelli del Pnrr.

I numeri e la storia del made in Italy dimostrano che al sistema italiano la flessibilità del “piccolo” non fa male, le piccole imprese sono pienamente integrate in un sistema di imprese medie e medio-grandi efficienti e competitive; e negli ultimi tre anni le Pmi hanno dimostrato di sapersi adattare a ogni crisi. Ma di fronte alle enormi sfide del prossimo decennio è indispensabile una politica di lungo periodo con una capacità di fare scelte strategiche paragonabile a quella della Germania e della Francia.

A inizio legislatura la premier Giorgia Meloni ha ribattezzato il ministero per lo Sviluppo economico in “ministero dell’Industria e del made in Italy”, un piccolo ritocco comunicativo che però rappresenta una forte dichiarazione di intenti del suo piano per intervenire a lungo termine sulla strategia e le istituzioni industriali italiane, con l’obiettivo di arrivare alla creazione di campioni nazionali in settori che vanno dall’energia alla moda e al lusso, e il lancio di un fondo sovrano da un miliardo di euro per sostenere le filiere strategiche.

È l’approccio ambizioso di un governo che, forte del consenso e della larga maggioranza in entrambe le camere, mira a portare pienamente a termine il suo mandato in un Paese in cui nessun governo del dopoguerra è rimasto intatto per un’intera legislatura. Anch’esso uno dei limiti delle capacità di pianificazione del sistema Italia.