Inchieste

Ambientalismo UE senza rete

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di Federico Bosco

Nei prossimi anni i governi europei dovranno fare scelte che determineranno il futuro dell’industria e di milioni di posti di lavoro in tutta Europa, nonché i rapporti di forza con le altre potenze del pianeta. Le sedi in cui vengono prese queste decisioni sono le istituzioni dell’Unione europea, che da Bruxelles regolano le economie e la vita di uno spazio economico da 446 milioni di abitanti distribuiti in 27 paesi anche molto diversi tra loro in termini di popolazione, equilibri politici, fondamentali economici e interessi nazionali che non sempre corrispondono.

Nelle ultime settimane a sollevare preoccupazioni in Italia sono state la direttiva sulle case green e il regolamento sull’auto elettrica, due pilastri delle politiche ambientaliste dell’Ue che sollevano perplessità non per uno scontro ideologico tra chi nega il problema del cambiamento climatico e i catastrofisti del movimento Extinction Rebellion, ma perché queste direttive creano frizioni oggettive tra il necessario processo di transizione ecologica e gli interessi economici delle famiglie e delle imprese italiane.

L’impatto di queste normative infatti sarà rilevante per l’intera filiera dell’automotive (fondamentale per la nostra economia), per i proprietari di immobili (circa l’80 per cento in Italia), per lo sviluppo dell’edilizia, e anche per chi sviluppa le diverse tecnologie dell’elettrico o per chi lavora sui carburanti alternativi (come l’Eni).

Qualcosa di simile potrebbe avvenire anche per quel che riguarda il settore agroalimentare con strumenti discutibili come il Nutriscore, che accenderebbe un “allarme rosso“ anche su prodotti d’eccellenza, e addirittura fino all’abbigliamento, con la proposta di uno stop alla filiera del “fast-fashion”.

Argomenti che riguardano il possesso di un’auto privata, di una casa, il modo in cui si mangia o ci si veste, e per milioni di persone la sopravvivenza della propria attività professionale o del posto di lavoro. In sintesi, decisioni che riguardano la vita quotidiana e il futuro di tutti.

L’approvazione del Parlamento europeo del regolamento che impone lo stop dal 2035 della produzione di motori a benzina o diesel è una delle misure più ambiziose mai imposte dall’Ue. Dopo quella data in nessuno dei 27 Stati membri sarà più permesso vendere automobili e autocarri che producono emissioni di anidride carbonica (CO2). La proposta della Commissione europea, parte del pacchetto di misure denominato Fit for 55, si pone l’obiettivo di portare a zero le emissioni di CO2 delle auto e veicoli commerciali leggeri dando inizio di una nuova era.

Tra meno di 13 anni le uniche automobili che potranno essere vendute nell’Ue saranno quelle alimentate con energia elettrica o idrogeno, a prescindere dal mix di produzione dell’energia del paese europeo in cui saranno utilizzate, quanto dall’energia consumata per realizzare le nuove auto e le batterie. Inoltre, la Commissione ha già avviato l’iter per estendere il regolamento anche al trasporto pesante (camion e gli autobus).

Secondo l’Associazione europea dei costruttori di veicoli (Acea) la transizione avrà costi a dir poco enormi, per accompagnarla è necessario che l’Europa diriga e finanzi una politica industriale molto aggressiva. Altrimenti, nel giro di poco tempo l’automotive europeo resterà drammaticamente indietro rispetto a Cina e Stati Uniti, e non potrà più recuperare il gap competitivo.

In una lettera aperta rivolta alle istituzioni comunitarie il Ceo di Renault e presidente dell’Acea, Luca De Meo, spiega che Washington e Pechino hanno messo in atto enormi programmi economici –  come l’Inflation Reduction Act e il piano Made in China 2025 – per il sostegno ai produttori per la transizione verso il nuovo modello, con risultati evidenti: il mercato interno cinese infatti è diventato il più grande al mondo per produzione e commercializzazione di auto elettriche. L’Ue non ha messo in campo niente del genere.

Quello di De Meo è un vero e proprio grido di allarme, una trasformazione industriale di questo tipo avrà ripercussioni epocali sugli occupati di tutta la filiera dell’automotive. Per esempio, grazie al ridotto numero di componenti da assemblare e alla semplicità dei processi costruttivi, la manifattura dei motori elettrici impiega solo il 20 per cento della forza lavoro rispetto alle ore/uomo per l’assemblaggio di analoghe power unit a combustione interna.

Ciò significa che si ridurrà rapidamente anche le dimensioni dell’indotto, come i meccanici, in gran parte tagliati fuori dal nuovo mercato per mancanza di mezzi e competenze per convertire le officine a intervenire su mezzi che richiedono strutturalmente meno manutenzione.

Inoltre, alle vetture serve una rete di distribuzione elettrica capillare in grado di offrire ovunque le infrastrutture per ricaricare le auto. Secondo lo Smart Mobility Report, a fine 2021 in Europa c’erano circa 340mila punti di ricarica ad accesso pubblico, con una diffusione molto disomogenea tra, e all’interno, dei 27 Stati membri. Questa carenza emerge soprattutto in relazione alla ricarica autostradale, fondamentale per garantire viaggi su lunghe distanze e un uso di massa fuori dalle grandi città.

A luglio 2022 in Italia si stimavano solo 250 punti di ricarica ad accesso pubblico di tipo rapido e ultra-rapido in ambito autostradale, distribuiti in modo molto diverso nelle regioni con il solito enorme divario nord/sud. In generale, secondo Motus-e, in totale sono 37mila i punti di ricarica installati sul territorio italiano. A essere determinante per l’uso quotidiano di auto elettriche sono ancora i box di ricarica nell’abitazione privata, una possibilità che per ragioni economiche e pratiche non è alla portata di tutti.

Complessivamente, tra i mercati di auto elettrica più consolidati dell’Ue figurano Olanda, Germania e Danimarca. L’Italia è abbondantemente sotto la media (anche se sta recuperando in fretta) insieme ad altri 18 stati membri tra i quali Spagna, Grecia, Belgio, Polonia, Romania.

Il passaggio al full electric probabilmente è inevitabile, anche Stati Uniti e Cina vanno in quella direzione e, come sottolinea De Meo, i produttori non vogliono assolutamente tirarsi indietro.

Ma sono processi di trasformazione della produzione e del consumo di massa che dovrebbero evolversi gradualmente insieme al mercato, non con una deadline autoritaria che forse suona bene nella teoria dei documenti dell’Ue, ma risulta devastante nell’attuazione pratica.

Il costo sociale ha già iniziato a presentarsi. Stellantis ha annunciato che taglierà 2mila posti di lavoro in Italia (il 4,3 per cento dei 47mila totali nel paese), dopo averne tagliati 7mila negli ultimi tre anni (dati Fiom). La statunitense Ford licenzierà nei prossimi tre anni 3.800 persone in Europa, soprattutto in Germania (2.300 persone) e nel Regno Unito (1.300).

Pertanto, Roma e Berlino stanno rivedendo la posizione iniziale, e con i loro funzionari a Bruxelles sono al lavoro per coordinare le posizioni e opporsi alla normativa nelle diverse sedi comunitarie, un approccio congiunto che intende riflettere la vicinanza sulle questioni industriali delle prime due economie manifatturiere d’Europa. Anche i funzionari di Polonia e Ungheria hanno fatto sapere che si opporranno.

Nessuno contesta la necessità di fare progressi nella transizione verde, ma sono in molti a dire che va aperto un dibattito più aperto e pragmatico su come e quanto velocemente andare avanti, valutando i compromessi necessari per consentire a tutti di stare al passo.

L’Ue ama raccontarsi come l’avamposto della sostenibilità ambientale, ma è ora che Bruxelles faccia i conti con la realtà. Se alcuni paesi hanno lo spazio fiscale per finanziare la sostituzione del tipo di prodotto che si compra all’estero e la transizione infrastrutturale, per altri significa perdere intere filiere industriali causando disoccupazione e povertà, esattamente l’opposto di quel progresso economico e civile che a parole si vuole promuovere.