Inchieste

Parsi: l’espansione dei mercati non basta per la pace

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di Federico Bosco

Dopo settimane di tensione, dichiarazioni, minacce e tentativi di mediazione caduti nel vuoto, il 24 febbraio di un anno fa Vladimir Putin dava l’ordine di invadere l’Ucraina per rovesciare il governo di Volodymyr Zelensky e sostituirlo con un uomo fedele al Cremlino, che avrebbe riportato l’ex repubblica sovietica sotto il controllo di Mosca.

Un anno dopo la guerra continua, ma il mondo è cambiato.

Come afferma il professor Vittorio Emanuele Parsi nel suo ultimo libro “Il posto della guerra e il costo della libertà” (ed. Bompiani), con l’invasione russa dell’Ucraina si è interrotto in Europa un percorso di pace che durava da quasi ottant’anni. Secondo Parsi, docente di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, questa crisi «dimostra che la pace passa per la democrazia, ma anche che le democrazie devono essere pronte a difendersi». 

Professore, una delle domande rimaste tali anche dopo un anno è quanto sia realistica la possibilità che il mondo ricada in una divisione tra blocchi contrapposti come ai tempi della Guerra Fredda, con una nuova cortina di ferro che vedrà da una parte il mondo occidentale liberale, e dallaltra unalleanza di autocrazie guidate da Russia e Cina.

Probabilmente il fronte delle autocrazie non sarà coeso come il medesimo ai tempi della guerra fredda, manca un collante ideologico propositivo. Il regime russo e quello cinese hanno molti punti di contatto, ma sono anche molto diversi, per non parlare di quello iraniano e di molti altri Paesi che guardano a questo possibile allineamento con interesse pur avendo regimi di carattere ancora diverso. Dal punto di vista occidentale, paradossalmente, la divisione non sarà molto differente rispetto al passato. Le democrazie sono molto più omogenee tra loro, condividono il sistema politico basato sulla democrazia rappresentativa, la visione di un’economia di mercato, l’ideale di una società aperta.

Possiamo semmai immaginare una minore convergenza tra le democrazie e i regimi di natura diversa rispetto a quello che si auspicava fosse in atto in nome dell’iper-globalizzazione, e una maggiore divergenza su altre questioni, principalmente di sicurezza ma anche visioni economiche. Tuttavia, ciò potrebbe anche essere una notizia positiva. Da parte occidentale era già in agenda l’idea di una revisione della globalizzazione così mal governata e un po’ troppo sbilanciata su un eccesso di un mercatismo.

In questo scenario a prevalere sarebbe quindi una globalizzazione più stretta, tra Paesi amici, eventualmente estesa a quelli non ostili, e quindi un sistema in cui a guidare il commercio internazionale non sarà solo lallocazione del massimo rendimento del capitale senza curarsi del rischio geopolitico di costruire interdipendenze economiche in alcuni Paesi?

Penso di sì, la tendenza del campo democratico sarà di stabilire come valutare il costo politico della globalizzazione. Proprio come esiste una valutazione di impatto ambientale, che accettiamo faccia parte del calcolo economico in quanto principio per la difesa dell’ambiente, nel mondo post-24 febbraio dobbiamo imparare a valutare il costo della cooperazione con sistemi non democratici in termini di possibile ‘avvelenamento’ dell’ambiente politico internazionale. In questo caso il rischio non è che si possa creare un ambiente ostile alla sopravvivenza della specie umana, ma uno ostile alla  sopravvivenza della specie democratica.

Ma quindi si può dire che linvasione russa dellUcraina non ha rotto solo gli ottantanni di pace in Europa, ma anche lottimismo che ha guidato la globalizzazione degli ultimi trentanni…

Questo è il punto centrale della riflessione che faccio nel mio libro. C’è un dato fattuale che è la rottura di ottant’anni di pace in Europa, e uno concettuale che è la fine dell’illusione che l’espansione del capitalismo fosse un sostituto funzionale dell’espansione della democrazia per la garanzia della pace e della sicurezza del sistema. Quello che abbiamo visto con la guerra in Ucraina è che l’espansione del capitalismo e l’interdipendenza dei sistemi economici alza il costo della rottura provocata dalla guerra,  ma non la rende impossibile.

In realtà è una cosa che sapevamo, ma negli ultimi trent’anni la visione iper-mercatistica ci ha fatto trascurare questo dato di fatto delle relazioni internazionali, ci siamo illusi che tutto funzionasse lo stesso. Questa disponibilità all’apertura è stata la politica nei confronti della Cina fin dall’inizio dell’amministrazione Clinton, ed è stata la politica dei Paesi europei con la Russia.

Si pensava che la Russia e la Cina si sarebbero lentamente avviate, se non verso la democrazia, verso sistemi meno autocratici. Era davvero così sbagliato pensarlo?

Se non ha funzionato non è per sfortuna: a essere sbagliata era l’intera prospettiva teorica. La lezione da apprendere è che l’ingresso nell’economia globalizzata non è sufficiente a impedire il conflitto. Se non condividono i principi della democrazia, anche due regimi capitalisti di natura diversa possono entrare in guerra tra loro. Solo l’espansione della democrazia rende impossibile la guerra tra democrazie”.

Ma allora come dobbiamo comportarci con gli stati non democratici?

Dobbiamo relazionarci con loro sapendo che la guerra è sempre possibile, e quindi che una visione esclusivamente economicista è sbagliata. Ciò non significa che non si può commerciare con i Paesi non democratici, ma bisogna muoversi con le dovute cautele, limitando la dipendenza, diversificando i mercati, computando un costo, e soprattutto avendo dietro uno strumento militare e politico-decisionale in grado di dissuadere dalla minaccia nei nostri confronti grandi e medie potenze dotate di poderosi armamenti, anche nucleari.

In un contesto del genere quale futuro avranno le organizzazioni internazionali? Se il G7 ha retto bene, integrandosi con la Ue e allargandosi anche allAustralia, organizzazioni come il G20 e il WTO cominciano a dimostrare tutti i loro limiti…

Tutte le principali organizzazioni internazionali sono ispirate ai principi democratici, ma solo le istituzioni che raccolgono al loro interno democrazie, economie di mercato e società aperte escono rafforzate dalle crisi e vedono incrementata la loro utilità nel coordinare le politiche delle democrazie. Le istituzioni che invece accolgono al loro interno sistemi che democratici non sono, risentono del progressivo avvelenamento dei rapporti tra democrazie e dispotismi.

Ciò non significa che bisogna cestinare il tutto, ma va tenuto conto che queste organizzazioni dovranno affrontare nuove sfide. Il multilateralismo, così importante per tanti temi (come clima, ambiente, sanità, non proliferazione nucleare), presenta gradi di difficoltà maggiori nel momento in cui deve far lavorare insieme democrazie e non democrazie. Ma per lavorare meglio con le non democrazie non dobbiamo venire meno ai nostri principi e ai nostri valori in nome di un’errata interpretazione del multilateralismo”.