Inchieste

Pnrr, il rush di Draghi tra inefficienze e ritardi. E ora l’incognita voto

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di Giorgio Costa

Si fanno i bandi, poi non si sa come vanno a finire. Si stilano progetti, ma poi non si conosce esattamente il loro destino. Il Mezzogiorno d’Italia dovrebbe essere destinatario del 40% dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma la quota, finora, è stata largamente disattesa. Il Pnrr è forse il più grande progetto politico-economico del dopoguerra: per l’Italia vale diversi punti di Pil nei prossimi 4 anni con i suoi interventi complessivi per 191,5 miliardi del Recovery Fund (che salgono a 221,5 con i 30 del Fondo complementare). Eppure stenta a realizzare in pieno la propria portata, tra difficoltà nel varare le riforme necessarie per ottenere i fondi europei, trasparenza limitata sui progetti e inefficienze delle amministrazioni locali. Il governo dimissionario Draghi ha spinto finora sull’acceleratore delle misure per centrare gli obiettivi fissati dal cronoprogramma; ma le elezioni anticipate del 25 settembre e i tempi lunghi per la formazione del nuovo governo aprono una fase di incertezza già sulla prossima rata da 21,83 miliardi che l’Europa dovrebbe darci a fine anno.

Diversi osservatori, tra fondazioni e università, sono nati per fare chiarezza sul Pnrr, al di là delle dichiarazioni ufficiali. Openpolis – fondazione indipendente che monitora da vicino l’attuazione del Piano – cerca di capire come effettivamente si stia muovendo una macchina organizzativa molto complessa e che ha bisogno di rispettare tempi e obiettivi per poter andare avanti; ma che fa fatica a sapere poi come effettivamente i progetti vengano materialmente attuati. E tutto questo mentre il governo uscente, ancora in carica per gli affari correnti ma con molti margini di manovra in tema di Pnrr, vuole raggiungere più obiettivi del previsto a ottobre, per blindare poi le tranche di finanziamenti che devono arrivare dall’Unione europea a fine 2022. In pratica, l’obiettivo del governo Draghi sono 29 target sui 55 restanti, con 26 che resteranno in capo al nuovo governo.

Peraltro, tanto si dibatte e tanto si promette, in campagna elettorale ma del Pnrr si parla e si scrive non abbastanza, mentre l’aumento dei prezzi del materiali dei cantieri, vicino a una media del 35% secondo Ance, l’associazione dei costruttori edili, rende superata la revisione dei prezziari e mette in forte difficoltà le  imprese che lavorano per il Pnrr (si veda l’articolo nella pagina successiva). E quel poco che si dice è centrato sulla possibilità di rinegoziare il Piano con la Ue. Le forze di centro-destra vogliono andare a ridiscuterlo a Bruxelles, adeguandolo alle nuove necessità imposte dalla guerra in Ucraina e puntando tra gli altri su energia, difesa delle infrastrutture strategiche nazionali, potenziamento e sviluppo delle infrastrutture digitali. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, insiste sulla necessità di «un accordo con la Commissione europea, così come previsto dai Regolamenti europei, per la revisione del Pnrr in funzione delle mutate condizioni, necessità e priorità». Mentre il centro-sinistra è per mantenerlo esattamente come l’ha concordato il governo Draghi, «per non dare a chi ci presta i soldi il messaggio – dice il leader del Pd Enrico Letta – che l’Italia è inaffidabile».

Anche dalle imprese è arrivata la richiesta di adeguare il Piano: «E’ stato presentato prima del terremoto economico seguito alla guerra – ha sottolineato Carlo Bonomi, presidente di Confindustria – ed è evidente che non è più possibile andare avanti in quella direzione». Occorre realizzare «la messa a terra dei progetti del Pnrr – secondo Maurizio Casasco, presidente Confapi – rivedendone parametri e misure e puntando su fonti rinnovabili e altre soluzioni di approvvigionamento energetico capaci di renderci più indipendenti».

Intanto le imprese fanno i conti con la macchina burocratica. «Esiste una tema importante – spiega Paolo Manfredi, che per Confartigianato segue le tematiche Pnrr – che è quello della capacità delle amministrazioni di captare risorse e scrivere i bandi per poi spenderle. E poi c’è la questione delle nuove condizioni di mercato che rischiano di mettere le imprese non in condizione di concorrere se non di adeguano i costi ai nuovi prezzi di energia e materie prime».

Nel complesso, 59,47 miliardi sono destinati alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica; 40,32 a digitalizzazione, innovazione, competitività cultura e turismo; 30,88 a istruzione e ricerca; 25,4 a infrastruttura per una mobilità sostenibile; 19,81 inclusione e coesione; 15,63 alla salute. Senza dimenticare che il 40% delle risorse deve essere destinato al Sud. Il tutto con un impatto significativo sulla crescita: il Governo prevede entro il 2026 un aumento del Pil del 3,6% e dell’occupazione del 3,2%. Il Piano prevede 134 investimenti (235 se si conteggiano i sub-investimenti) e 63 riforme, per un totale di 191,5 miliardi di euro (dei quali 68,9 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto ma gli altri sono da restituire) a valere sul fondo Next Generation EU. Tra prefinanziamento e prima rata, l’Italia ha già ricevuto 45,9 miliardi. Altri 21 sono in arrivo per gli obiettivi raggiunti a giugno. Ne mancano 124,6. I primi 19 sono previsti con la terza rata, in calendario a inizio 2023 se l’Italia centrerà anche gli obiettivi del secondo semestre 2022.

L’obiettivo del governo Draghi è rispettare le scadenze fissate per non perdere i fondi europei. Il premier uscente ha chiesto ai ministeri un lavoro “straordinario” per rispettare gli impegni. «Ad oggi – spiegano da Palazzo Chigi – dopo i 45 obiettivi raggiunti a giugno 2022, risultano conseguiti altri 9 obiettivi e traguardi del Pnrr. Anticipando quanto previsto nel cronoprogramma condiviso con l’Europa, l’obiettivo è di realizzare nei prossimi due mesi oltre il 50% degli obiettivi e dei traguardi del Pnrr in scadenza a fine anno». Per questa ragione la presidenza del Consiglio ha chiesto ai ministeri di anticipare, rispetto al cronoprogramma condiviso con l’Europa, il raggiungimento di 11 obiettivi a settembre (anziché 3, come previsto) e 9 entro ottobre, mese nel quale non era contemplata alcuna scadenza.

A proposito di scadenze stringenti, è fondamentale tenere sotto controllo i decreti attuativi, le norme di secondo livello che contengono le indicazioni operative indispensabili per dare piena applicazione alle riforme previste dal Piano. Sempre secondo una rilevazione di Openpolis, alla data del 26 agosto erano circa un terzo (54 su 153) le attuazioni che ancora mancavano all’appello.

Ma è l’aspetto dei controlli a destare non poche preoccupazioni tra gli osservatori. «A fine dicembre – spiega Martina Zaghi, analista di Openpolis – ci sarà una importante verifica Ue sull’attuazione del piano in vista dello sblocco della terza tranche di finanziamenti. E se a vincere le elezioni sarà il centro-destra e riuscirà a formare un governo, sarà subito sul tappeto la richiesta italiana di modificare almeno in parte il Pnrr: può essere riscritto, ma servono condizioni oggettive che rendano necessaria tale riscrittura».

Anche sul fronte dell’attuazione molto resta da capire. Quel che è carente è un sistema di monitoraggio della realizzazione concreta delle opere messe a bando. Le funzioni di rendicontazione, monitoraggio e controllo sono assegnate a una struttura incardinata presso il ministero dell’Economia, denominata Servizio centrale per il Pnrr, che rappresenta il punto di contatto con la Commissione europea. Le amministrazioni sono invece responsabili dei singoli investimenti e delle singole riforme. «Per esempio – spiega Zaghi – gli enti locali sono uno snodo fondamentale ma nessuno sta pubblicando i dati che ci dicano come stanno andando i progetti a livello di Comuni o di regioni». Così come resta da vedere se effettivamente il 40% dei fondi viene speso nelle aree del Mezzogiorno. Questa quota, a quel che risulta, è ampiamente disattesa da dicasteri chiave come Turismo e dello Sviluppo economico. «E questo accade per la gran parte perché gli enti locali del Mezzogiorno non hanno le competenze e le strutture amministrative in grado di poter reggere la sfida di domande e di progettualità valide». Per non dire del fatto che si controlla la realizzazione dei bandi ma non si va poi a vedere come quei bandi siano stati attuati. «Abbiamo chiesto più volte di poter accedere agli atti – conclude Martina Zaghi – ma di fatto l’accesso non è stato possibile. Una sorta di buco nero a cui pare non vi sia rimedio. Sono ancora molte le informazioni a oggi non disponibili: la quantità di risorse già erogate e il loro riparto territoriale, il quadro degli importi suddivisi su base annuale e dati aggiornati in maniera puntuale sullo stato di avanzamento delle scadenze». Il mese scorso anche la Corte dei conti ha sottolineato che restano «difficoltà notevoli nella capacità di spesa delle singole amministrazioni».

E ora arrivano le elezioni anticipate. Se, come detto, il governo uscente mantiene un ampio raggio d’azione per gli interventi, resta viva l’incertezza politica. Su alcune misure fissate dal cronoprogramma è stato possibile raggiungere un accordo con le forze politiche (la riforma della giustizia tributaria, varata in piena estate), in altri casi l’intesa si è piegata a pressioni e lobby, con l’esclusione o il congelamento di alcune parti più controverse: il grande banco di prova è il disegno di legge sulla concorrenza, con i temi scottanti dei taxi e delle concessioni balneari. Il prossimo governo continuerà l’iter della legge o l’abbandonerà? Non è peregrino il rischio che Bruxelles stabilisca che sono stati conseguiti solo in parte gli impegni assunti dall’Italia, e che di conseguenza riduca le risorse finanziarie destinate al Paese. Più d’un partner europeo non vede l’ora di riprendere i soldi.