Inchieste

Recessione e salari: le due mine per FED e BCE

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di Attilio Geroni

È sempre più complesso e incerto il quadro macroeconomico globale mentre le grandi banche centrali (tranne la Bank of Japan) sono impegnate in uno sforzo coordinato di stretta monetaria con l’obiettivo di riportare entro gli obiettivi (2%) un’inflazione ormai sfuggita di mano e in molti casi già a doppia cifra.

Le politiche monetarie delle Banche Centrali

La BCE ha aumentato i tassi di riferimento di 75 punti base il 27 ottobre e reso meno vantaggiose le condizioni per le operazioni di finanziamento più a lungo termine per le banche (TLTRO). La FED non è stata da meno il 2 novembre: rialzo analogo (75pb) che ha portato il livello dei tassi sui fed funds in un margine compreso tra il 3,75% e il 4 per cento.

In entrambi i casi le decisioni sono state accompagnate da dichiarazioni esplicite sulla priorità del momento: combattere l’aumento dei prezzi, anche a costo di una recessione.

Ancora più articolato, invece, il compito della Bank of England, anch’essa protagonista il 3 novembre di una ulteriore stretta dello 0,75% che ha portato i tassi d’interesse al 3 per cento. La BoE deve inoltre contribuire a ristabilire la fiducia nei mercati finanziari del Regno Unito dopo il disastro della mini-finanziaria presentata in settembre dall’allora premier Liz Truss.

Il presidente della Banca centrale americana Jerome Powell ha lasciato chiaramente intendere che altri rialzi saranno necessari per abbassare un’inflazione che a settembre aveva raggiunto l’8,1%, in lieve ripiegamento rispetto al mese precedente. Secondo Goldman Sachs il livello del costo del denaro in America a marzo 2023 sarà in un margine compreso tra il 4,75 e il 5 per cento, con impatto diretto per i cittadini su aumento dei mutui, dei costi delle carte di credito e dei finanziamenti per le auto.

Inflazione e recessione

Si attende uno shock negativo sulla domanda interna e un sondaggio tra 42 economisti condotto da Bloomberg ritiene a questo punto che le probabilità di una recessione dell’economia americana l’anno prossimo siano salite al 60% rispetto al 50% del mese precedente.

La probabilità di una recessione non viene nascosta nemmeno dalla Banca centrale europea. Parlando a una conferenza a Riga, in Lettonia, la presidente Christine Lagarde nei giorni scorsi ha ammesso che tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 potrebbe esserci «una leggera recessione». Ciononostante, ha aggiunto di non credere che questa leggera recessione (tutto da vedere se sarà leggera, come era tutto da vedere l’aumento «temporaneo» dell’inflazione soltanto un anno fa) sarà sufficiente a domare l’inflazione: «Non possiamo semplicemente lasciare che le cose si aggiustino da sole» ha detto, lasciando intendere che la strada dell’aumento dei tassi è ancora lunga e che però le decisioni saranno prese «di riunione in riunione» e sulla base dei dati che via via saranno disponibili.

Il compito della Bce è reso ancor più difficile dalla forte disomogeneità che è venuta a crearsi con l’aumento dell’inflazione nei diversi stati dell’area Euro. Le repubbliche baltiche, ad esempio, sperimentano già un tasso d’inflazione annuo superiore al 20 per cento. La Germania in ottobre ha raggiunto l’11,6% mentre l’Italia il 12,8 per cento. La più virtuosa sul fronte dei prezzi in Europa continua a essere la Francia, che il mese scorso ha registrato un aumento su base annua dei prezzi al consumo pari al 7,1%. Oltre al risorse pubbliche messe in campo dal governo francese contro il rincaro delle bollette (oltre 100 miliardi) la Francia beneficia di un mix energetico più favorevole: dal 2021 a oggi quasi il 70% dell’elettricità del Paese viene dal nucleare contro, ad esempio, il 14,8% del Regno Unito e l’11,8% della Germania.

La spinta al rialzo dell’inflazione continua a essere dominata dalla componente energetica, aumentata in ottobre nell’Eurozona al 41,9% rispetto al 40,7% di settembre. Negli Stati Uniti è un po’ diverso poiché gioca un ruolo abbastanza importante anche la componente della domanda, sicuramente più robusta al momento di quella europea, con un mercato del lavoro che nonostante tutto continua a produrre buone statistiche e soprattutto un aumento dell’occupazione. Ciò comporta il potenziale innesco di dinamiche salariali inflattive, che la Fed sembra intenzionata a contenere sul nascere.

Tali dinamiche non sono al momento presenti in Europa, anche se i negoziati salariali in Germania sono iniziati sotto il segno di richieste d’aumento che compensi il tasso d’inflazione ormai elevato, il più alto degli ultimi 50 anni per la prima economia dell’Eurozona.

Resta da vedere se con le condizioni monetarie sempre più restrittive, solo in parte bilanciate da politiche fiscali espansive soprattutto sul fronte del caro energia, ci sarà una recessione moderata o severa.

Secondo Erik F. Nielsen, Chief economics adviser di UniCredit, gli indicatori sulla fiducia delle imprese sono piuttosto deboli e sembrano scommettere su una recessione non troppo severa, mentre quelli sulla fiducia dei consumatori sono ai minimi storici e indicano una contrazione più netta. A questi livelli, l’inflazione è talmente lontana dagli obiettivi delle banche centrali che l’economia globale, dopo un decennio ultra accomodante su questo fronte, non potrà farne conto sul fronte della crescita. La difesa (anche) della reputazione di Bce, Fed e BoE è in questa fase un prezzo elevato da pagare per i consumatori e per le imprese.