Inchieste

Riso amaro, la siccità stravolge le coltivazioni

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di Roberta Favrin

Un cielo che preoccupa e un tempo limite per la prossima semina. Dalle sorgenti al Delta del Po gli agricoltori vivono le stesse ansie e, per molti versi, la stessa sensazione di impotenza. Neve e pioggia non si comandano, le falde si asciugano come i fiumi e i laghi, la terra si spacca, dura come una pietra, polverosa come la sabbia nel deserto.

I più speranzosi sono in campo, altri temporeggiano.

Vale per il riso come per il mais. Il viaggio inizia tra le risaie, 218mila ettari tra Novara, Vercelli e Pavia. Nel 2022 sono stati seminati 9mila ettari in meno e si sono prodotti 15 milioni di quintali: la siccità ha falciato il 17% del raccolto totale, ma qualcuno ha perso ben di più, dal 40 al 65%. Per questo molti hanno deciso di cambiare strada.

«Un sondaggio dell’Ente Risi lanciato ha stimato che quest’anno si perderanno altri 8mila ettari di riso – segnala Giovanni Daghetta, storico risicoltore pavese e consigliere del Consorzio di Irrigazione Est Sesia – la Pac ne incentiva la coltivazione, il clima no». Qualcuno ha già optato per le colture autunno vernine che si raccolgono a giugno, altri stanno valutando le alternative: il mais, la soia o meglio ancora il sorgo, decisamente meno bisognoso di irrigazione.

«La semina del riso può attendere fino a fine aprile, metà maggio al massimo, io spero ancora nella pioggia», dice Daghetta. Un intero comparto a rischio? «Le risaie, grazie al riutilizzo dell’acqua per più volte e alla progressiva restituzione della stessa ai fiumi, rappresentano un esempio virtuoso di impiego della risorsa idrica – risponde – dobbiamo utilizzare al meglio le falde sotterranee e a mio avviso riprendere la semina in acqua, via via abbandonata nell’ultimo decennio. Va detto, poi, che ogni zona ha il suo affanno: lo scorso anno il Sesia stava meglio del Po, quest’anno, se guardiamo ai dati di aprile, la situazione è esattamente opposta».

Il risparmio dell’acqua è un “must”, un obbligo perentorio per tutti. Come realizzarlo è un problema a soluzione aperta. Piersilvano Borella, allevatore e vicepresidente di Cia Agricoltori Centro Lombardia critica apertamente l’irrigazione a goccia sostenuta da molti colleghi: «È adatta solo ad alcuni tipi di terreno e soprattutto ha una dispersione esorbitante: il 70% dell’acqua evapora, il 30% resta sulla pianta, quindi nulla finisce nella falda – afferma – con il sistema a scorrimento, invece, il 70-80% dell’acqua irrigata torna alla falda e alimenta tutti i terreni lungo gli impianti, senza distinzione».

Scendiamo in Emilia Romagna, terra d’elezione del Parmigiano che significa oltre 3mila allevamenti e più di 300 caseifici, 4,1 milioni di forme per un valore alla produzione di circa 1,8 miliardi. Sulla riva destra del Po i terreni sono argillosi e lo stress idrico, per ora, si percepisce meno. L’erba medica seminata a febbraio ce la farà, ma dopo? Se non piove, da metà di maggio in poi soffriranno il mais e gli sfalci successivi delle foraggere che già sono molto più costose. L’erba medica valeva 15-17 euro al quintale, oggi 27-30. Lo sa bene Roberto Gelfi, imprenditore del settore zootecnico, amministratore del Consorzio del Parmigiano Reggiano e presidente di Confagricoltura Parma: «La Dop Parmigiano Reggiano è obbligata a ricavare il 70% delle foraggiere nella sua area di produzione – spiega – nel momento in cui la siccità riduce la capacità produttiva va in sofferenza tutta la filiera».

Il tema dell’acqua che non c’è diventa un’incognita ancora più pesante se ci si proietta all’estate: che sia al pascolo o in stalla, ogni bovina da latte consuma da 100 a 150 litri di acqua al giorno. «Bisogna salvare le falde, migliorare la gestione dei consorzi irrigui, utilizzare sistemi di irrigazione più efficienti, accelerare la sperimentazione in campo di varietà resistenti a stress idrico e fitopatogeni», suggerisce Gelfi.

L’ultima tappa del viaggio è in Polesine. In provincia di Rovigo c’erano oltre 26mila ettari coltivati a granturco: «La siccità dello scorso anno e quella che si prospetta da qui a fine estate ha ridotto la semina del 60%», denuncia Cia Rovigo. Claudio Greguoldo ha un’azienda agricola di 40 ettari a Porto Tolle, sul Delta del Po: «Questa è la terra dei miei nonni, io ho 71 anni e una siccità così non l’ho mai vista. La terra si spacca, il cuneo salino riempie le falde di acqua salata, non si può irrigare, ho rinunciato a metà del raccolto».

Si prova con colture meno idroesigenti come grano, girasole, orzo. I tecnici  agricoli prevedono che in pochi si cimenteranno con il secondo raccolto di soia, perché bisognerebbe irrigarla con regolarità tra fine giugno e luglio quando la crisi potrebbe essere al culmine. «Siamo in mezzo a sette rami del Po, non abbiamo acqua dolce ma paghiamo lo stesso il servizio al Consorzio irriguo: non si può andare avanti così – denuncia Greguoldo – chi ha autorità e mezzi deve intervenire subito: bisogna trattenere l’acqua dolce quando c’è e dissalare quella del mare. Senza acqua la prossima vittima è la pianta umana». Il presidente di Cia Veneto, Gianmichele Passarini, si appella al commissario straordinario nazionale per l’emergenza idrica: «L’acqua è a disposizione di tutti, nessuno potrà beneficiarne più di altri».