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Sostenibilità, digitale, manodopera: per la moda gli esami non finiscono mai

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di Laura Galbiati

Il fashion system italiano sembra aver ritrovato colore dopo gli anni bui della pandemia. Ma all’orizzonte si delineano nuovi banchi di prova che imporranno investimenti e riorganizzazioni: dopo l’aumento dei costi e l’inflazione, dopo la difficoltà nel reperire le materie prime, ora si aggrava la carenza di manodopera specializzata, cambiano i modelli di consumo, emerge la necessità di adeguarsi alle nuove tecnologie e di ridefinire i processi produttivi in ottica sostenibile per rispondere agli standard imposti dalla Ue e alle richieste delle nuove generazioni di consumatori.

Dopo le ristrutturazioni profonde di inizio secolo, ce la faranno le piccole e medie imprese italiane, tessuto produttivo del comparto, a superare queste altre sfide?

A livello globale, i numeri sono confortanti. Secondo l’ultimo Luxury Goods Worlwide Market Monitor di Bain & Company e Fondazione Altagamma (novembre 2022), lo scorso anno il segmento dei beni di lusso personali ha registrato una progressione di circa il 22% rispetto al 2021, toccando quota 353 miliardi di euro; per il 2023 la previsione di crescita è tra il 3% e l’8%. A trainare il comparto sono sempre Europa e Stati Uniti, ma i mercati emergenti stanno registrando performance molto positive, in particolare Corea, Sud Est Asiatico e India.

Analizzando più in dettaglio il settore italiano del tessile-abbigliamento, che nel 2019 totalizzava circa 53 miliardi ma ne ha persi una ventina in un anno a causa della pandemia, la ripresa sembra ormai solida, nonostante le difficoltà economiche e geopolitiche. «Da due anni stiamo crescendo in modo importante.

I dati preliminari mostrano per lo scorso anno un incremento del 17,8% sul 2021, a 63 miliardi, e per i primi 6 mesi 2023 la previsione è +9,4%», spiega Gianfranco Di Natale, direttore generale di Sistema Moda Italia (Smi), federazione che rappresenta circa 40mila aziende, per poco meno di 400mila addetti. «La ragione di questo rimbalzo è da ricercare nella ritrovata voglia delle persone, dopo i lockdown, di uscire, viaggiare e quindi spendere anche per l’abbigliamento, in particolare per i beni di lusso, facendo così incrementare i fatturati delle grandi griffe, ma con una ricaduta importante sulla filiera italiana che produce per loro».

Attenuati i timori di una recessione dopo la rapida crescita del 2022, la moda ha registrato a inizio 2023 un buon andamento del fatturato, che però è in parte legato alla crescita dei prezzi di vendita (+9% annuo in due mesi) con la filiera industriale che è riuscita a scaricare parte degli aumenti di energia e delle materie prime. La dinamica dei prezzi retail è stata più contenuta (+3%), ben inferiore all’inflazione. In volume la produzione è leggermente diminuita, specie nei settori intermedi (tessile e pelle), mentre è cresciuta per abbigliamento e calzature. L’inflazione sta aggredendo i guadagni delle aziende, sottolinea Di Natale: le imprese stanno marginalizzando meno. Fenomeno tuttavia in parte compensato dalla crescita sia in valore sia in volume dei consumi di lusso.

Anche sul fronte internazionale, sebbene i confinamenti cinesi e il conflitto in Ucraina abbiano avuto un impatto sulle export, che rappresenta il 60% del giro d’affari del tessile-abbigliamento, la ripresa è evidente.

«Per il 2023 prevediamo un aumento delle esportazioni di poco inferiore al 20%. Se si è fermato il mercato russo, che comunque rappresentava negli ultimi anni solo il 2% dell’export del sistema moda, si è ripreso molto bene quello americano. Inoltre i consumatori cinesi hanno sempre continuato a comprare localmente oppure online; ora con la ripresa dei viaggi torneranno a essere gli acquirenti di riferimento per il lusso, assieme a nordamericani, sudamericani e arabi».

Altro nodo cruciale per il settore è la carenza di manodopera artigianale e la necessità di avvicinare i giovani alle attività produttive per garantire il ricambio generazionale. Una preoccupazione in particolare per le Pmi, spesso non attrezzate come le realtà più strutturate per far fronte al problema.

Nel corso dell’ultima edizione del salone Milano Unica il presidente di Confindustria Moda, Ercole Botto Poala, ha parlato di un fabbisogno di circa 90mila addetti, soprattutto figure tecniche, sottolineando che dopo anni in calo nel 2022 gli istituti tecnici hanno registrato un +2% nelle iscrizioni.

«L’economia italiana si basa da sempre sulla manifattura, ma nei primi anni 2000, a livello di pensiero economico-politico, vi è stata l’enunciazione di quello che sarebbe dovuto divenire il futuro dell’economia europea, un’economia non di trasformazione ma di erogazione di servizi, un’esaltazione del terziario, come sistema, su modello dell’Inghilterra.

Il nostro sistema industriale, e in particolare il tessile, da inizio secolo colpito da forti ristrutturazioni, è stato poco appealing per molti giovani e le loro famiglie e di questo ancora oggi stiamo pagando pegno», sottolinea Di Natale. «Come federazione stiamo portando avanti diverse iniziative per attrarre i giovani al tessile manifatturiero, abbiamo firmato un accordo con il ministero dell’Istruzione e collaboriamo con quello del Lavoro. Bisogna far capire ai ragazzi che in questo settore si trovano facilmente opportunità lavorative ben pagate, vista l’elevata domanda», sottolinea Di Natale.

Su questi aspetti, sono numerose le imprese, di ogni dimensione, che hanno avviato internamente o in collaborazione con scuole progetti di formazione per garantirsi una manodopera futura. Come Staff International, la piattaforma produttiva del gruppo Otb, che nel 2020 la lanciato la sua Scuola dei Mestieri, per trasferire ai giovani il saper fare della moda e del lusso. Ancora, il gruppo comasco Clerici Tessuto ha avviato il progetto Academy. Maglificio Erika (gruppo Florence) lancerà un programma di formazione presso l’Istituto ‘Giuseppe Medici’ di Legnago (si vedano gli altri servizi alle pagine 12-13).

Passando al tema della sostenibilità e della capacità delle Pmi italiane di adeguarsi alle nuove normative europee, il direttore generale di Smi si dice fiducioso: «Producendo per il lusso, molte aziende italiane a monte della filiera si sono già dotate da anni di processi sostenibili e certificazioni; inoltre, le nostre Pmi si sono sempre dimostrate in grado di adeguarsi ai cambiamenti. A mio avviso, la riflessione va fatta su ciò che sta chiedendo la Ue, che forse ha un approccio ideologico che supera quello pragmatico. È giustissimo pensare a un progetto di sostenibilità, ma occorre calarlo nella realtà produttiva e dare alle aziende il tempo necessario per adeguarsi».

Spinta al fashion dal Fondo strategico: 1 miliardo alle filiere del Made in Italy

Il 31 maggio scorso, il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge sul Made in Italy, volto a «valorizzare e promuovere le produzioni di eccellenza, le bellezze storico artistiche e le radici culturali nazionali» e che quindi può avere effetti diretti su un comparto emblematico dell’italianità come quello della moda.

Tra le principali disposizioni del nuovo Ddl, la nascita del Fondo strategico nazionale del Made in Italy, che prevede una dotazione iniziale di 1 miliardo di euro per supportare la crescita delle filiere, con un’attenzione particolare al tema dell’approvvigionamento delle materie prime. Sono inoltre state introdotte «nuove misure settoriali a sostegno delle principali filiere di eccellenza attraverso la valorizzazione della filiera legno-arredo 100% nazionale, del tessile, della nautica, della ceramica e dei prodotti orafi. 10 milioni di euro sono destinati al potenziamento delle iniziative di autoimprenditorialità e imprenditorialità femminile».

Sul tema istruzione e formazione, è stato istituito il Liceo del Made in Italy, che prenderà il via con l’anno accademico 2024/25 e avrà l’obiettivo di promuovere conoscenze e abilità relative all’eccellenza della tradizione italiana attraverso un percorso liceale. Inoltre, è stato definito un Programma di trasferimento delle competenze generazionali per le imprese private con non più di 15 unità, che consente ai lavoratori pensionati da meno di due anni di svolgere attività di formazione a dipendenti con meno di 30 anni. Diverse le misure introdotte a tutela del Made in Italy e contro la contraffazione, come la creazione di un contrassegno che attesti l’origine italiana dei prodotti e l’utilizzo della Blockchain per la certificazione delle filiere.

Infine, sono state istituite la “Giornata nazionale del made in Italy”, che si terrà il 15 aprile di ogni anno, per celebrare la creatività e l’eccellenza italiana presso Istituzioni, scuole e luoghi di produzione, e l’Esposizione nazionale permanente del made in Italy.

Un salto culturale nelle imprese e meno burocrazia

Sul tema della mancanza di manodopera giovanile, che tanto preoccupa le Pmi della filiera tessile e moda, Matteo Secoli, presidente di Istituto Secoli, dal 1934 punto di riferimento per la formazione di figure tecniche per il settore moda, ha le idee chiare.

«I giovani che vogliono lavorare nel fashion sono tanti, ma oggi la narrazione si focalizza quasi esclusivamente sul prodotto finito, sulle sfilate e sulla parte creativa. La nostra industria invece ha bisogno di figure professionali in grado di gestire la produzione, anche grazie al fenomeno del reshoring che sta riportando sempre più la manifattura in Italia.

Bisogna spiegare ai ragazzi che è un ambito in cui ci sono molte opportunità di lavoro gratificanti e ben retribuite», spiega Secoli. «C’è un grande lavoro da fare dal punto di vista culturale: le aziende devono cambiare il loro concetto di operaio degli anni ’60 o ’70 e rivedere i propri concept produttivi. Le istituzioni, da parte loro, devono pensare a politiche di migrazione intelligenti, che aiutino i giovani che dall’estero vogliono venire a studiare nelle scuole italiane di moda, anziché ostacolarli a livello burocratico».

Istituto Secoli ha inaugurato lo scorso anno una nuova sede a Novara, dove ha preso il via il primo corso dedicato alla figura del prototipista. «Il nostro servizio di placement, che mette in contatto domanda e offerta di lavoro, evidenziava che ben il 33% delle richieste riguardavano la prototipia», aggiunge Secoli. «Questi numeri ci hanno convinto a lanciare il nuovo percorso formativo per diventare prototipisti, una figura chiave all’interno delle aziende di moda, che deve interpretare la creatività, i materiali, decidere il percorso di produzione migliore e spiegarlo ai modellisti».

Il primo anno accademico, partito lo scorso ottobre e che terminerà a luglio, ha coinvolto una ventina di studenti e aziende partner di tutto rispetto: Gucci, Herno, In.Co, Versace, Zamasport e Alexander McQueen. «Tutte le società ci hanno supportato in modo concreto, sia in aula sia presso le loro sedi, dove gli studenti hanno potuto passare delle giornate di studio/lavoro e dove a fine corso faranno degli stage. Per risolvere il problema della scarsità di manodopera occorre costruire grandi collaborazioni tra aziende, brand, distretti, istituzioni e scuole», conclude Secoli.

PureDenim tesse il cupro con le fibre naturali

Sostenibilità è anche pensare a metodi alternativi per la produzione tessile, sfruttando pure materiali finora ritenuti di scarto. È da questa convinzione che è partita l’azienda lombarda PureDenim, specializzata da anni nella produzione di tessuto denim sostenibile, per realizzare assieme all’azienda giapponese Asahi Kasei e al suo marchio Bemberg, la nuova generazione di denim green Blue di Cupro, prodotta utilizzando l’omonima fibra di cellulosa rigenerata.

Per realizzare il cupro Bemberg viene infatti utilizzata la peluria dei semi di cotone, normalmente eliminata dopo la raccolta, che in questo caso viene invece trasformata in una pasta utilizzata in seguito per produrre fibra o filo. Abbinando il cupro, materiale lucente e leggero utilizzato solitamente per le fodere interne degli abiti di lusso, ad altri materiali come cotone, lana o canapa, PureDenim è riuscita a ottenere tessuti con la stessa resistenza al tempo e ai lavaggi del denim.

Ma non solo: «Per la tintura indaco utilizziamo la nostra tecnologia Smart Indigo, che non prevede l’utilizzo di sostanze chimiche; finissaggi e performance sono ottimizzati con Eco Sonic, un’altra tecnologia che riduce significativamente l’acqua utilizzata. Inoltre, tutti i nostri filati sono protetti da un prodotto naturale, denominato NaturalReco, che sostituisce le pellicole di plastica», spiega Luigi Caccia, fondatore di Pure Denim.

Sempre alla ricerca di nuove metodologie per aumentare ulteriormente la sostenibilità dei propri processi produttivi, l’azienda di Inveruno (MI), ha collaborato con la israeliana Sonovia Tech alla creazione di un sistema di lavaggio a ultrasuoni, che anche in questo caso riduce drasticamente il consumo d’acqua.

«Attualmente stiamo lavorando sempre con Sonovia Tech a una metodologia di tintura a ultrasuoni; progetto le cui prime pre-produzioni dovrebbero arrivare entro la fine di quest’anno e per il quale abbiamo firmato un accordo che vede coinvolto anche il gruppo del lusso francese Kering, interessato a queste nuove tecnologie per ridurre sempre più l’impatto ambientale delle proprie produzioni», conclude Caccia.