La Settimana Internazionale

Africa, porta globale degli investimenti UE

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di Paolo Della Sala

Il “dialogo” euro-africano nel dopoguerra è stato marcato negativamente dal neocolonialismo francese, culminato nella guerra algerina, nella eliminazione di Gheddafi e nel bombardamento del palazzo presidenziale della Costa d’Avorio. Negli anni ’90 nel continente è cominciata una penetrazione culturale-religiosa di Arabia e Iran. L’ondata islamista ha avuto diverse modalità: quella integralista, con l’intervento di Al Qaeda in Somalia e nel Sahel; quella “politica” dei Fratelli musulmani da Gaza all’Egitto fino a Tunisia e Algeria. Dopo l’onda islamista sono arrivati i miliziani di Wagner e le infrastrutture cinesi, presentate come “donazione” che si è poi rivelata peggio che bancaria: «Io realizzerò infrastrutture e tu pagherai a lavoro finito, oppure mi darai in cambio materie prime e appoggio politico».

Nella crisi degli anni ’20 si è delineata la nuova divisione globale tra democrazie e dittature. Ne deriva una corsa alle materie prime, con l’Africa  diventata un nuovo Klondike per l’oro nero, all’oro rosso del rame dello Zambia, all’oro “raro”  dei minerali a uso cibernetico.
Oggi si muove tutta la Ue, mentre l’Italia avvia il “Piano Mattei”, basato non sulla “donazione interessata” di centinaia di miliardi della Ue, ma su un piano di delocalizzazione e industrializzazione condivisa con molte nazioni africane. L’angelus novus del Piano Mattei è un  fatto positivo rispetto alla assiderata politica estera italiana, finora basata su Eni e l’export. Il viceministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale, Edmondo Cirielli, incontrando la sua omologa del Burkina Faso, Olivia Rouamba, ha ribadito «come l’Africa rappresenti per l’Italia e per l’Europa un continente di grandi sfide ed enormi opportunità, con ruolo chiave per gli equilibri globali». L’interscambio Italia-Africa nel 2022 ha registrato una crescita del 60%.

La Ue ha elaborato una sua Via della Seta, che ufficialmente si chiama Global Gateway (GG) ma che metaforicamente potremmo chiamare Via della Sete, almeno per la parte Africa-Europa che rappresenta circa il 50% degli investimenti europei nelle nazioni africane: “sete” di materie prime da parte europea, e “sete” di sviluppo economico e industriale dalla controparte.

Tra il Digital for Development Hub e il Global Gateway l’Unione europea mobiliterà circa 300 miliardi di euro di investimenti tra il 2022 e il 2027.

La metà degli investimenti (150 miliardi) sarà destinata all’Africa.

Se la “Porta globale” avrà successo, lo sbarco della Belt and Road Initiative (BRI) cinese in Europa e Africa rischierà un serio ridimensionamento. Il piano cinese nel 2013 prevedeva 3000 miliardi di spesa, ma in Europa non è andata bene, per Pechino. Comunque gli investimenti in Africa sub-sahariana cinesi sono stati di 4,03 miliardi di dollari tra gennaio e giugno del 2023 (+130). Aumentato del 69% il fatturato per le infrastrutture a 6,29 miliardi. Le infrastrutture cinesi in Namibia sono cresciute del +457%, quelle in Eritrea del +359%.

Il piano Ue va inoltre legato al suo equivalente del G7, la “Partnership for Global Infrastructure and Investment” (PGII), partorita nel summit tedesco di un anno fa, che a sua volta prevede quasi 600 miliardi di dollari di investimenti. I due piani di investimento occidentali opereranno congiunti su un’economia a idrogeno verde in Namibia, Egitto, Kazakistan, India e Cile.

Altri progetti riguardano il corridoio Maputo-Gaborone-Walvis Bay, con la posa di cavi marini per interconnettere via Internet l’Africa australe con l’Europa (EurAfrica Gateway). Si contribuirà anche alla creazione di reti locali digitali, oltre allo sviluppo di energia fotovoltaica con la Mega Solar Initiative, che prevede 5000 MW. Riguardo la mobilità delle merci e delle persone con corridoi strategici come quelli paneuropei, si parla di undici dorsali di trasporto.

Anche il Giappone ha un suo “Piano Mattei”, mentre la Francia cerca di recuperare autorevolezza. La cooperazione nippo-africana si avvale della annuale Tokyo International Conference on African Development (TICAD). Nel decennio 2010-2019 il Giappone contribuiva in aiuti finanziari all’Africa con una media annuale di 1.581 milioni di dollari, mentre l’Italia aveva una media di 356 milioni, gli USA di 10.877, la Francia di 3.234 (Fonte Ispi).

La Francia cerca di recuperare il potere perduto: il 3 novembre il ministro degli Esteri nigeriano Yusuf Tuggar ha incontrato ad Abuja il suo omologo francese Catherine Colonna.

Obiettivo: dare una più marcata presenza africana nelle istituzioni globali e attivare una maggiore cooperazione bilaterale. Dopo la ritirata militare dal Sahel, la ministra Colonna ha marcato l’importanza dell’azione per “restaurare la democrazia” svolta dalla Comunità degli Stati africani occidentali (Ecowas) in Mali, Burkina Faso e Niger, dove si è tornati alla malsana gloria dei golpe militari con matrici islamiche, tribali e putiniane.
Il 30 ottobre è stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz a visitare la commissione Ecowas. Insomma, assistiamo a una processione di Babbi Natale carichi di doni. Certo, qualcosa migliora: si parla di sviluppo della moda africana a livello mondiale, mentre su Africa News si calcola il numero delle città africane con più milionari in dollari: a Johannesburg sono 14.600 (ma la città sudafricana è ricca già dalla Corsa all’oro del 1886). Al Cairo sono 7.400, a Lagos 5.400, a Nairobi 4.700, a Casablanca 2.800, ad Accra 2.000.

Anche l’Ucraina è arrivata in Africa. L’avamposto militare di Kiev potrebbe forse diventare una specie di Wagner delle democrazie? I vantaggi sarebbero quelli di avere una struttura più libera rispetto a strutture come Ue, Onu, G7 e Nato, là dove si deve agire rapidamente e in maniera più “disinvolta”, nel caso di golpe o attacchi terroristici. Parleremmo quindi di un nuovo realismo à la guerre comme à la guerre?
Certo il Sudan è uno dei fronti più caldi, dove Russia e Cina sono molto attive: il golpe in Mali è stato attuato da un militare addestrato in Russia e sostenuto dalla Wagner.

Quanto al Sudan, gli ucraini avrebbero colpito la Wagner nel corso di scontri tra ribelli e le truppe governative di Abdel Fattah al Burhan. La Cnn ha chiesto chiarimenti a fonti ucraine che hanno definito “probabile” il ruolo di Kiev nelle operazioni militari. I raid con i droni sono iniziati dopo l’arrivo di un convoglio con armi destinate ai ribelli della Rsf, il cui mittente era la Wagner.

Secondo altre fonti, Kiev punterebbe a vendere armi in Africa, producendole in loco. L’industria bellica ucraina, tra le prime al mondo, è bloccata dall’invasione russa.

Quando è bruciato il grattacielo della Greater Nile Petroleum Oil Company alto 18 piani ci si è ricordati del Sudan dove – come a Gaza – ci sono quartieri senza acqua corrente né elettricità. Il conflitto ha finora provocato cinque milioni di sfollati e distrutto o reso inagibili l’80% degli ospedali sudanesi, mentre le violenze non accennano a stemperarsi. Anche nel Darfur sono ripresi gli scontri, ma naturalmente di questo alle ipocrite opinioni pubbliche mondiali non frega niente. Importa Gaza, dove più che di Israele si dovrebbe parlare degli interessi globali sul mega giacimento israeliano Leviathan. God bless Africa..