La Settimana Internazionale

Antisemitismo, un prodotto tutto europeo

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di Federico Bosco

Israele sta portando avanti con estrema determinazione l’obiettivo di rimuovere Hamas dalla Striscia di Gaza, incurante delle richieste di moderazione che arrivano dai suoi alleati, a partire dagli Stati Uniti.

La durissima risposta israeliana agli attentati del 7 ottobre ha scatenato un’ondata di proteste in Occidente e nel mondo arabo-islamico, facendo riemergere anche un antisemitismo che, soprattutto in Europa, non è mai veramente scomparso.  Secondo Ugo Tramballi, editorialista del Sole 24 Ore residente a Gerusalemme, per gli antisemiti di oggi le azioni militari di Israele sono un pretesto per alzare la testa nascondendosi dietro la legittima critica alle politiche israeliane nei territori palestinesi.

«Le immagini e la conta delle vittime che arrivano da Gaza – spiega – permettono agli antisemiti di sentirsi legittimati nel lanciare feroci invettive contro lo stato ebraico, che in alcuni casi arrivano fino ad azioni contro gli ebrei e la memoria dell’Olocausto. A queste persone non importa niente dei palestinesi, anzi, spesso sono gli stessi che oltre agli ebrei odiano anche i musulmani».

Quando si parla di Israele e Palestina assistiamo a un’inquietante saldatura tra estremismo di destra e di sinistra…

«Anche se il pretesto iniziale è lo stesso, i due antisemitismi sono molto diversi. Il primo, quello dell’estrema destra fascista, è profondamente radicato nell’odio europeo per il popolo ebraico che risale all’antichità e sopravvive ancora oggi. Il secondo, di estrema sinistra, ha una connotazione ideologica che possiamo definire ‘meno orribile’ poiché non è radicato nell’odio per gli ebrei, ma in una visione del mondo da veterocomunisti ancora legati al rapporto dell’Unione Sovietica con Israele.

Quando fu fondato lo Stato di Israele, nel 1948, tutti erano convinti che – da Paese socialista quale effettivamente era – lo stato ebraico sarebbe entrato nella sfera d’influenza sovietica, in contrapposizione con i Paesi arabi governati da monarchie legate al Regno Unito. Le cose andarono in maniera completamente diversa e i sovietici adottarono una posizione politica fermamente anti-israeliana, che però non era antisemita. Successivamente sono stati i principali Paesi arabi nemici di Israele ad avvicinarsi all’Unione Sovietica, seguiti dalle organizzazioni militanti palestinesi, collocando il conflitto israelo-palestinese negli schieramenti ideologici della Guerra Fredda. Chi mantiene questa posizione ancora oggi, più che una persona antisemita è una persona ridicola, che continua osservare il mondo con una mappa che non esiste più».

Nei paesi arabi e nelle piazze di città come Londra, Parigi e Milano però assistiamo anche all’antisemitismo delle mondo arabo-islamico

«L’antisemitismo rimane un prodotto europeo. Gli arabi odiano gli israeliani in quanto occupanti della Palestina, non perché sono ebrei. Chiamano gli israeliani ‘yahud’, che significa ‘giudeo’, ma in arabo questa parola non ha lo stesso significato dispregiativo che ha per noi occidentali, è solo il modo in cui chiamano gli israeliani. Gli arabi a volte imitano l’antisemitismo europeo per manifestare il loro odio per Israele, specialmente quando il messaggio è rivolto all’Occidente, ai loro occhi è il principale colpevole della potenza e dell’impunità dello stato ebraico. Ma quell’odio per Israele, viscerale, è un odio contro l’occupazione che non ha niente a che vedere con l’antisemitismo degli europei. Termini come ‘nazi-islamismo’ sono del tutto inappropriati».

Le conseguenze globali dell’occupazione però non sembrano al centro delle preoccupazioni israeliane. Nelle manifestazioni di quest’anno contro la riforma giudiziaria del governo Netanyahu il grande assente era proprio il tema dell’occupazione, nonostante il legame tra l’ascesa dell’estrema destra nazional-religiosa (con la sua volontà di sovvertire la democrazia israeliana), e l’intensificarsi della colonizzazione dei territori palestinesi.

«Le rare volte che nelle manifestazioni è apparsa una bandiera palestinese, la polizia l’ha rimossa. Uno degli organizzatori mi ha spiegato che è stato fatto di proposito per non aggiungere troppi argomenti, e concentrarsi sulla difesa della democrazia. Ma in realtà, sono gli stessi organizzatori a riconoscere che mettere la questione palestinese tra gli slogan significava ridurre di almeno un terzo la partecipazione alle proteste. Non sono solo i coloni nazional-religiosi e la destra a rifiutare la nascita di uno stato palestinese, e dopo il 7 ottobre il fronte dei contrarsi sarà ancora più ampio.

Questo è un problema enorme per Israele, dopo la guerra la pressione internazionale per riaprire il processo di pace diventerà molto più forte».

Il governo Netanyahu è in una lotta contro il tempo fra il raggiungimento dell’obiettivo militare e la crescente pressione internazionale affinché fermi l’offensiva. Ma anche se Israele dovesse riuscire a eliminare Hamas, cosa succederà dopo?

«Adesso è prematuro cercare di capire come finirà questa guerra. Quello che sappiamo è che in passato ogni grande operazione israeliana e ogni rivolta palestinese hanno aperto la strada alla crisi successiva. Quindi, anche se Israele riuscirà a sradicare Hamas, questo scontro non sarà l’ultimo. Poi c’è la questione interna, tutta israeliana. Di fronte all’orrore del 7 ottobre Israele si è compattato, ma arriverà anche una resa dei conti. Dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 il Paese superò la crisi, ma subito dopo ci fu una commissione d’inchiesta. La premier dell’epoca, Golda Meir, si dimise prima che qualcuno glielo imponesse.

Appena sarà finita la guerra a Gaza accadrà qualcosa del genere, con la differenza che Netanyahu non sembra avere intenzione di seguire quell’esempio. I suoi comportamenti fanno pensare che cercherà di restare attaccato al potere con le unghie e con i denti, spaccando ulteriormente la società israeliana. Quasi sicuramente ci saranno elezioni anticipate, che dovrebbero dare ai partiti centristi di Benny Gantz e Yair Lapid la possibilità di formare una maggioranza. Gantz è un ex capo di stato maggiore, e in Israele i militari sono sempre stati più realisti e pragmatici dei politici. Ma il mosaico politico israeliano è molto frammentato, la maggioranza sarà stretta, forse troppo per superare le resistenze».

Cosa prova oggi una persona che segue questo conflitto da una vita?

«È una passione, e una maledizione. Seguire il conflitto israelo-palestinese è sempre stato complicato. Entrambe le parti si aspettano che tu stia con loro ‘senza se e senza ma’, che significa che o stai con loro, o sei contro di loro. L’unica certezza è che c’è un occupante e un occupato, ma dopo tutti questi decenni non puoi essere puramente innocente e puramente colpevole, ogni parte ha la sua dose abbondante di errori».