La Settimana Internazionale

Da riforma pensioni a crisi istituzionale

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di Attilio Geroni

Il déjà vu ha ormai una valenza storica in Francia, anche per gli osservatori esterni. La bocca non si apre per sbadigliare di fronte a proteste di massa che più volte, nel passato recente e meno recente, hanno scosso e paralizzato il Paese, ma si apre per tradire stupore, sorpresa e preoccupazione nei confronti di un tratto ormai stabile e profondamente radicato della società.

Almeno due terzi dei francesi, dicono i sondaggi, non vogliono la riforma delle pensioni che è stata loro imposta per decreto dal governo di Élisabeth Borne. Una maggioranza che protesta nella capitale, nelle grandi città, nelle periferie e nei piccoli centri dell’immensa provincia dove l’onnipresenza dello Stato e dei suoi servizi è una presenza sempre più rarefatta che spesso diventa assenza.

La forza trasversale è diventata incontenibile e si riversa nelle strade e nelle piazze: centinaia di migliaia di lavoratori (soprattutto ma non solo) del settore pubblico e studenti si contrappongono al deficit politico di una maggioranza parlamentare che al momento del voto sulla riforma previdenziale è venuta a mancare. Questa stessa forza dice no al metodo usato dal Governo per forzare il passaggio del provvedimento con il ricorso al fatidico articolo 49.3 della Costituzione del 1958, cornice istituzionale della V Repubblica, che permette a determinate condizioni di approvare le leggi per decreto bypassando il Parlamento.

Ed è qui che lo scontro si fa diretto, senza mediatori e mediazioni, tra le peuple, il popolo, insoddisfatto e arrabbiato, e il presidente Emmanuel Macron, che della riforma previdenziale, concepita già nel primo mandato e promessa nuovamente durante la campagna presidenziale dell’anno scorso che portò alla sua rielezione, è stato artefice e promotore.

Stranamente Macron si trova ad affrontare quello che il suo mèntore, il filosofo Paul Ricoeur, definiva il paradosso della democrazia. Un paradosso dove le peuple si aspetta che un’autorità centrale prenda alcune iniziative importanti e risolutive, ma allo stesso tempo vive queste decisioni come un’intrusione nelle loro vite e sente, sempre più schiacciante, il peso della verticalità del potere (quello presidenziale, ndr).

È chiaro che il presidente, almeno in questa fase, non è percepito come una figura istituzionale in grado di dialogare con le nuove forme di rappresentatività orizzontale – le ultime proteste di piazza, le rivendicazioni dei gilet gialli nel 2019, la costante mobilitazione sui social media.

Del resto è stato lo stesso Macron a far esplodere in due riprese, con le presidenziali del 2017 e quelle del 2022, il tradizionale paesaggio politico di riferimento della Francia della V Repubblica che oscillava tra neogollisti e socialisti, e che dal 2002 si è spesso trasformato in fronte repubblicano come argine all’avanzata dell’estrema destra lepenista.

Ora il quadro è più complesso. La fine del pendolarismo tra sinistra e destra, con l’inserimento di un polo presidenziale frutto di una sintesi sempre più artificiosa tra socialismo riformista e liberismo temperato, ha portato al rafforzamento della sinistra radicale e dell’estrema destra.

Tre entità politiche di cui due – l’aggregazione della nuova sinistra che fa capo a Jean-Luc Mélenchon e il cosiddetto polo centrista di Macron – continuano a essere magmatiche e instabili mentre la destra lepenista conferma la sua forza stabile nelle periferie e nelle ruralità di Francia.

«Il risultato è che ci troviamo di fronte a manifestazioni molto più importanti e massicce di quelle dei Gilets Jaunes – spiega Gilles Gressani, direttore della rivista di geopolitica Le Grand Continent – e questa volta con la presenza di un vero e proprio coordinamento intersindacale. La crisi politica sulla riforma delle pensioni è ormai diventata una crisi istituzionale».

Secondo Gressani, è la conseguenza della prima rielezione di un presidente della V Repubblica che non ha alle spalle un partito strutturato, con un forte ancoraggio territoriale. La minaccia costante dell’avvento della destra lepenista all’Eliseo ha reso a Macron la riconquista della presidenza più facile, ma la disgregazione del paesaggio politico operata da lui stesso «come una palla da demolizione, prima contro il Partito socialista e poi contro il partito neogollista gli rende più difficile l’azione governativa».

Simon Kuper in un lungo articolo sul Financial Times cita analisti politici che prospettano la fine della V Repubblica e un’ampia riforma istituzionale che porti a una riduzione delle prerogative presidenziali e a elezioni legislative in grado di rappresentare meglio il magma politico in via di lenta solidificazione, e soprattutto una società sempre più segmentata e stratificata: la risposta non può più essere l’uomo della provvidenza, un’autorità centrale che in questa occasione non riesce a esercitare un ruolo demiurgico. Tantomeno questa stessa risposta può arrivare – e infatti non è arrivata alle urne nel giugno dell’anno scorso – da un sistema che alle legislative è fissato nell’uninominale maggioritario a doppio turno, pensato sulla scia dell’esito del voto presidenziale e per canalizzare l’onda del consenso parlamentare verso il capo di Stato appena eletto. La politica è dunque zoppa e poco rappresentativa nella fase più tumultuosa che la Francia abbia attraversato negli ultimi decenni.

Sul banco degli imputati una riforma (si legga la scheda per i dettagli) che è già stata annacquata rispetto alle intenzioni originarie, non è certo profonda e traumatica come quella adottata da altri Paesi (si cita spesso il paragone con la riforma Fornero) e che vede la spesa pensionistica francese in rapporto al Pil tra le più alte dell’Unione europea (14,5%), superata soltanto da quella italiana e greca.

«Le tempistica e il momento sono decisivi, come ricordava sempre Macchiavelli – dice Gressani – per cui lo stesso gesto o provvedimento può avere un significato e un impatto completamente diversi se adottato in un diverso contesto spazio-temporale. La riforma Fornero coincideva con un periodo in cui i conti pubblici in Italia erano vicini al punto di non ritorno e quindi veniva vista come una sorta di ultima spiaggia. In Francia, invece, la riforma previdenziale è parsa anti-ciclica, imposta dopo gli anni durissimi della pandemia che tra l’altro avevano visto un utilizzo molto pesante della spesa pubblica e un sistema sanitario sotto forte stress, e gli anni del ritorno dell’inflazione, del caro energia, che avevano eroso rapidamente il potere d’acquisto delle famiglie».

Difficile immaginare il punto di caduta di questa vicenda, segno di un malessere strutturale della Francia e di un’insofferenza nei confronti di Macron e di un esercizio del potere considerato elitario e distaccato che era evidente già negli anni scorsi. Non solo insofferenza, ma rabbia, emersa con forza, anche e soprattutto tra i giovani, durante la campagna elettorale presidenziale di un anno fa, punteggiata dalle proteste nelle università al grido di “Né con Macron né con Le Pen” prima del ballottaggio. In realtà, in questo scenario di instabilità, secondo una simulazione pubblicata da Le Grand Continent sulla base di un recente sondaggio di Ifop, il grande beneficiario in caso di scioglimento dell’Assemblée Nationale sarebbe il Rassemblement National di Marine Le Pen che diventerebbe in parlamento il primo partito di Francia quasi raddoppiando il numero dei seggi.

Quale scenario se ti torna alle urne

Possibile composizione dell’Assemblea Nazionale in caso di elezioni anticipate (simulazione di Le Grand Continent su sondaggio Ifop). Il grande beneficiario sarebbe il Rassemblement National di Le Pen con 140-180 seggi (89 nel 2022), davanti a Renaissance di Macron con 140-170 seggi (contro i 250 attuali), Nupes, l’alleanza delle sinistre guidata da Mélenchon, con 130-170 (151) e i neogollisti di Les Républicains con 50-60 (62).

I punti salienti della riforma pensioni

  • Che cosa prevede la riforma delle pensioni approvata per decreto dal Governo francese e che ha scatenato proteste di massa, anche violente, in tutto il Paese?
  • Innanzitutto l’aumento dell’età pensionabile di due anni, a 64, rispetto agli attuali 62 e rispetto a un’idea originaria di allungamento a 65 anni, poi abbandonata per ragioni politiche dopo l’esito delle elezioni presidenziali e legislative dell’anno scorso.
  • Rispetto a una precedente riforma del 2014 (presidenza Hollande) è stato anticipato dal 2035 al 2027 l’aumento degli anni di contribuzione, da 42 a 43, per poter avere diritto alla pensione piena.
  • A questo obiettivo si arriverà gradualmente, un trimestre all’anno a partire da settembre, fino al 2030, quando sarà completamente a regime. Nel contempo, alla pensione minima sarà garantito un valore pari all’85% del salario minimo (SMIC) che è di circa 1.200 euro lordi. Un anno dopo il pensionamento, per quanti percepiscono il livello minimo di reddito è prevista un’indicizzazione all’inflazione.
  • I dipendenti del settore pubblico impegnati in lavori considerati usuranti, sia sul piano fisico che su quello mentale, potranno continuare ad usufruire del pensionamento anticipato rispetto alla nuova età di riferimento, ma anche per loro il limite aumenta di due anni. A titolo di esempio gli agenti di polizia e le guardie carcerarie con il vecchio regime potevano andare in pensione a 52 anni.
  • È prevista la fine dei molteplici “regimi speciali”, in deroga a quello generale, riservati ad alcune categorie, come i dipendenti delle società pubbliche di trasporti (RATP, SNCF), dei gruppi energetici (EDF) e della banca centrale. Il cambiamento si applicherà unicamente ai nuovi assunti.
  • L’obiettivo del governo è di arrivare a un risparmio annuo lordo di 17,7 miliardi a partire dal 2030, anno in cui prevede il pareggio del bilancio previdenziale, mentre senza la riforma si arriverebbe a un deficit d’esercizio di 13,5 miliardi (tra 60 e 80 miliardi invece quello cumulato).
  • La Francia è uno dei Paesi europei che spende più risorse per la pensioni in rapporto al Prodotto interno lordo, il 14,5% nel 2020 secondo i dati Ocse. Solo Grecia e Italia nell’Unione europea spendono di più in previdenza, sempre in rapporto al Pil.