La Settimana Internazionale

G7 e Cina: verso l’addio alla Via della Seta

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di Federico Bosco

La Cina sarà al centro del G7 di Hiroshima, dove i leader delle sette principali economie del mondo daranno seguito al vertice della settimana scorsa dei ministri delle Finanze, in cui si è discusso della necessità di svincolare le catene di approvvigionamento dall’eccessiva dipendenze dall’economia cinese allineandosi alla posizione degli Stati Uniti. L’obiettivo, esplicitato nel comunicato, è lanciare entro quest’anno una rete di partnership per rendere le supply chain globali più “inclusive” e “resilienti”.

Gli europei hanno un approccio più sfumato rispetto a quello statunitense, ma anche i membri dell’Unione europea più coinvolti con la Cina stanno prendendo atto che è arrivato il momento di marcare una distanza strategica da Pechino. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha esortato l’Ue a ridurre la dipendenza accusando la Cina di agire sempre più come un rivale piuttosto che come partner; l’Italia sta valutando tempi e modi per annullare l’accordo sulla Via della Seta; i Paesi Bassi hanno bloccato le esportazioni in Cina dei macchinari per la fabbricazione dei semiconduttori più avanzati prodotti solo dall’olandese SML e pochi altri.

Pertanto, è facile immaginare che quello che verrà fuori dal G7 non piacerà a Pechino. La preoccupazione di molti è che la Cina reagisca applicando ritorsioni economiche, anche indirette e non esplicite, con conseguenze concrete sulle imprese piccole e medie che hanno rapporti commerciali con partner cinesi ma nessun coinvolgimento (né scudo) politico.

Il dato di fatto è che si è giunti alla fine di un’era. L’ascesa della Cina è stata una caratteristica della globalizzazione degli ultimi trent’anni, da quando il Paese ha iniziato ad aprirsi e riformarsi per ricevere investimenti occidentali il suo Pil è cresciuto in media di un vertiginoso 9 per cento all’anno permettendo a centinaia di milioni di cinesi di uscire dalla povertà. Oggi la Cina rappresenta quasi un quinto della produzione mondiale, e la vastità della sua base manifatturiera ha rimodellato l’economia globale rendendo il Paese uno degli esponenti  trainanti e più potenti della globalizzazione.

Xi Jinping, che ha governato la Cina negli ultimi dieci anni, ha intenzione di usare il peso economico del suo Paese per rimodellare l’ordine geopolitico globale, ma non è chiaro fino a che punto intende spingersi. Tutto ciò sta smorzando le previsioni a lungo termine sul potenziale dell’economia cinese. Il modello di crescita che ha consentito alla Cina di diventare una superpotenza commerciale ha raggiunto i suoi limiti e necessita di profondi cambiamenti, i ritmi di crescita degli ultimi vent’anni non possono più essere replicati. Non è il modello statunitense o degli altri Paesi dell’Ocse a doversi reinventare, ma quello della Repubblica popolare.

Se la Cina intende davvero sfidare sul piano politico-militare gli Stati Uniti, deve accettare di perdere alcuni vantaggi dei mercati internazionali e aperti della globalizzazione, e affrontarne le conseguenze. Non basta annunciare il declino statunitense e occidentale per renderlo reale, né per modellare una nuova globalizzazione “multipolare” a guida cinese. Per raggiungere questo traguardo servono forzature che eliminano e sostituiscono parte delle regole attuali.

La pandemia e la guerra in Ucraina hanno dimostrato che, nonostante tutto, i Paesi occidentali hanno ancora molto da dire mentre le autocrazie russa e cinese risultano assai meno brillanti rispetto a qualche anno fa. L’altra domanda scomoda è se la globalizzazione può fare a meno della Cina. Nella sua forma attuale no, ed è per questo che gli Stati Uniti e l’Europa non vogliono una rottura. Ma ciò non toglie che l’occidente ha raggiunto crescita e sviluppo ben prima di aprirsi alla Cina, mentre l’economia cinese ha conosciuto la sua fase di crescita accelerata solo grazie all’apertura ai mercati e agli investimenti (e tecnologie) occidentali. Difficile quindi stabilire chi rischierebbe di più in un mondo “de-globalizzato”.