La Settimana Internazionale

Il centralismo francese che non sa rispondere al disagio degli ultimi

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di Attilio Geroni

 

Non c’è pace per la Francia. Dopo le proteste e le violenze dei Gilets Jaunes nel 2019 e quelle contro la riforma delle pensioni nel 2022, le banlieue tornano a infiammarsi. L’immagine delle fiamme è certo abusata, ma sintetizza il dramma che il Paese sta vivendo in questi giorni dopo l’uccisione del minorenne Nahel da parte di un poliziotto a Nanterre, Nord di Parigi. La protesta è legittima – lo era anche ai tempi dei Gilet Gialli in seguito all’aumento di una tassa sul carburante per finanziare la transizione ecologica – perché la polizia francese ha mostrato più volte la mano pesante nei controlli d’identità nelle zone sensibili, provocando in alcuni casi la morte dei fermati. Ma dopo la protesta è arrivata una violenza inaudita, amplificata e in un certo senso telecomandata dai social media, che ha portato saccheggi e distruzione di negozi e strutture pubbliche, non solo nelle periferie di Parigi ma di altre grandi e medie città della Francia.

Molti hanno ironizzato sull’appello lanciato dal presidente Emmanuel Macron all’indomani dei primi scontri, un appello ai genitori, a esercitare il loro senso di responsabilità nei confronti dei figli che devastano anche il bene comune. Eppure in quelle comunità dove i giovani rappresentano ormai la terza generazione di immigrati dal Nord Africa e dell’Africa, le gerarchie famigliari rappresentano in alcuni casi dinamiche importanti, come dimostra l’appello della nonna di Nahel a «rientrare a casa».

È impossibile analizzare in maniera esaustiva un fenomeno, la rivolta delle banlieue, che in Francia ebbe il suo culmine nel 2005, quando due ragazzi di Clichy-Sous-Bois, incalzati dalla polizia, finirono fulminati contro una centralina elettrica di EDF. Proteste e violenze durarono tre settimane. Le concause sono molte, oltre alla violenza e al razzismo ricorrenti nelle forze dell’ordine. C’è il tema della segregazione spaziale in quartieri dove vivono quasi esclusivamente cittadini che hanno origini, più o meno vicine, nell’immigrazione dalle ex colonie francesi. C’è un ascensore sociale bloccato per cui è sempre più difficile per i giovani delle banlieue uscire da un ghetto dove proliferano criminalità e spaccio di droga e le istituzioni pubbliche appaiono talmente lontane da essere percepite con diffidenza o come nemiche quando provano ad avvicinarsi.

Non ha molto senso parlare di fallimento del modello multiculturale come fa la destra, strumentalmente prendendosela sempre con l’Islam, anche perché il modello francese tende piuttosto all’assimilazione. Ma è anche difficile articolare le ragioni del disagio sociale di fronte a violenze inaudite, distruttive e organizzate che prendono di mira le vetrine dei grandi marchi e le concessionarie di auto di lusso.

Macron ha dovuto annullare un appuntamento importante, la prima visita di Stato di un presidente francese in Germania da 23 anni, per affrontare l’ennesima prova che non accrescerà il suo indice di popolarità. La Francia è diventato un Paese difficile da gestire da parte di un potere iper centralizzato. Con i Gilet Gialli fu la cosiddetta Francia periferica a protestare per la lontananza dello Stato in molte regioni, ma in quell’occasione non ci fu alcuna saldatura con la rabbia delle banlieue nate dall’immigrazione.

I livelli di malcontento sono stratificati, spesso senza vasi comunicanti se non l’esplosione di una rabbia repressa e la degenerazione in violenza sistematica e spesso organizzata. Nascono da istanze diverse, non comunicano tra loro, ma finiscono per sfogare fisicamente il malcontento contro La République. C’è una mancanza di rappresentatività politica che dopo la fine dell’alternanza storica tra conservatori e socialisti e la sopravvivenza artificiosa del centro macroniano, apre varchi impensabili agli estremi. La sinistra radicale, ma soprattutto la destra, sempre estrema e sempre viva e radicata nel territorio, di Marine Le Pen.