La Settimana Internazionale

La direttiva sugli edifici efficienti scalda la UE

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 di Lorenzo Consoli

La nuova direttiva europea sulla performance energetica degli edifici sta suscitando forti polemiche soprattutto in Italia, a causa del percorso a tappe forzate che impone a tutti gli Stati membri per la ristrutturazione dei loro parchi edilizi nazionali, verso obiettivi fissati al 2027, 2030 e 2033, per arrivare poi al 2050 al traguardo dell’azzeramento delle emissioni.

La direttiva, proposta dalla Commissione europea il 15 dicembre del 2021, è già stata oggetto di un accordo fra i governi in sede di Consiglio Ue, il 25 ottobre, mentre è ancora in discussione al Parlamento europeo: l’enorme numero di emendamenti proposti (circa 1.600) ha costretto a rimandare al 9 febbraio il primo voto nella commissione europarlamentare competente (Industria, Ricerca ed Energia).

L’elemento centrale della direttiva è costituito proprio dagli obiettivi intermedi per le ristrutturazioni edilizie volte all’efficientamento energetico: secondo la proposta della Commissione, tutti gli edifici pubblici e non residenziali esistenti, con le performance di efficienza energetica più basse (classe G) del parco edilizio nazionale in ogni Stato membro, dovranno passare alla classe superiore (F) entro l’inizio del 2027, e alla classe energetica successiva (E) entro l’inizio del 2030; le unità immobiliari residenziali esistenti di classe G, a loro volta, dovranno conseguire la classe di prestazione energetica F entro l’inizio del 2030, e la classe successiva E entro l’inizio del 2033. La Commissione prevede comunque diverse eccezioni per aree di particolare valore storico o architettonico, luoghi di culto, siti industriali, officine e fabbricati agricoli, abitazioni occupate solo stagionalmente.

L’accordo raggiunto in Consiglio Ue propone una modifica di questi obiettivi: per l’edilizia non residenziale vengono fissate delle norme di prestazione energetica, definite in base a una quantità massima di energia che gli edifici possono usare per metro quadro all’anno. Usando questo parametro, gli Stati membri dovranno stabilire due soglie massime di consumo energetico: la prima individuata in modo da lasciar fuori il 15% del parco edilizio nazionale, quello con le peggiori performance di efficienza; la soglia successiva, più bassa, sarà fissata in modo da non includere il 25% del parco nazionale, rimasto con le peggiori prestazioni energetiche. Il Consiglio propone che tutti gli edifici non residenziali passino sotto la prima soglia entro il primo gennaio 2030, e sotto la seconda entro il primo gennaio 2034.

Per quanto riguarda invece l’edilizia residenziale, viene proposto (con un obiettivo più ambizioso di quello chiesto dalla Commissione) che tutti gli edifici raggiungano la classe energetica D entro il 2033, e successivamente che ogni Stato membro fissi un proprio ulteriore obiettivo di aumento dell’efficienza energetica per il 2040, in linea con il percorso nazionale scelto verso il traguardo dell’azzeramento delle emissioni nel 2050. Il Consiglio prospetta anche una modifica dell’obiettivo zero emissioni per gli edifici di nuova costruzione, che chiede sia raggiunto per l’edilizia pubblica un anno più tardi di quanto prevede la Commissione, ovvero all’inizio del 2028, lasciando invece invariata la data dell’inizio del 2030 per tutti gli altri edifici.

Il Parlamento europeo ha già elaborato un proprio testo, che verrà proposto dal relatore, il verde irlandese Ciáran Cuffe, ma che subirà  profonde modifiche quando saranno votati gli emendamenti degli eurodeputati.

Le polemiche italiane contro la direttiva sembrano trascurare due elementi cruciali: l’investimento nell’efficienza energetica ha un ritorno certo in pochi anni, con una forte riduzione delle bollette; ed è comunque previsto un cospicuo intervento pubblico, degli Stati e dell’Ue, per finanziare gran parte delle ristrutturazioni che saranno necessarie per conseguire gli obiettivi, insieme a misure per incentivare e agevolare gli investimenti privati e i finanziamenti bancari.

Questione cui è dedicato, con molti dettagli, l’articolo 15 della direttiva: «Gli Stati membri – si legge tra l’altro – predispongono finanziamenti, misure di sostegno e altri strumenti per stimolare gli investimenti necessari nelle ristrutturazioni energetiche». E oltre ai finanziamenti nazionali possono usare «i finanziamenti disponibili stabiliti a livello dell’Unione, in particolare il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (il Pnrr, ndr), il Fondo sociale per il clima, i fondi della politica di coesione, il fondo InvestEU», nonché «i proventi delle aste per lo scambio di quote di emissioni» del sistema Ets «e altre fonti di finanziamento pubblico».