La Settimana Internazionale

La Germania cambia: le visioni di Scholz per una ostpolitik 4.0

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a cura di Attilio Geroni

 Tre manifesti a Berlino non fanno ancora una strategia geopolitica coerente e chiaramente leggibile dai partner europei. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz non è stato avaro di visioni sul futuro dell’Europa, e non solo, dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Il 27 febbraio è stato il discorso sulla Zeitenwende, il cambiamento epocale segnato dall’aggressione di Putin e la decisione della Germania di stanziare un fondo da 100 miliardi per modernizzare la propria difesa.

Il 29 agosto all’Università Carlo di Praga ha delineato la sua idea di Europa allargata (a Est, verso i Balcani e l’Ucraina) sottolineando la possibilità di modificare i Trattati per superare l’impasse del voto unanime nella politica estera comune e la necessità di rafforzare la cosiddetta sovranità europea in campo industriale e militare.

Infine, all’inizio di dicembre, un compendio della sua visione strategica internazionale in un editoriale su Foreign Affairs, dove il concetto di Zeitenwende, la svolta segnata dal nuovo conflitto scoppiato in Europa, assume una dimensione globale. E dove nei confronti della Cina, dopo la tardiva consapevolezza che con la Russia di Putin le relazioni di un tempo sarebbero state irrecuperabili, si sottolinea la necessità di una revisione profonda dei rapporti politici (senza però abbandonare il dialogo e soprattutto la cooperazione economica).

Non è poco per gli standard di un cancelliere tedesco che sicuramente, tra i leader europei, è quello che più di tutti sta cercando di ridefinire il ruolo del suo Paese in Europa e nel mondo. Anche perché l’invasione russa dell’Ucraina ha fatto crollare nello spazio di poche ore decenni di politica estera basati sull’intensificazione dei rapporti, economici e anche politici, con le due più grandi autocrazie mondiali: Russia e Cina.

La Germania del dopoguerra, in fondo, è stata grande maestra di outsourcing, in vari campi.

Dopo la caduta del Muro e la riunificazione ha delocalizzato in maniera intelligente una parte cospicua della sua filiera industriale in Europa dell’Est, l’auto in particolare, mantenendo un buon compromesso tra competitività dei costi e qualità premium e integrando perfettamente nella sua catena globale del valore gran parte dei sistemi produttivi di Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia.

In seguito alla crisi dei migranti del 2015 e dopo averne accolti oltre un milione in fuga dalle guerre del Medio Oriente, la Germania è stata il grande artefice dell’accordo tra Unione europea e Turchia dove Ankara, a fronte di un esborso UE da 6 miliardi, si sarebbe fatta carico della gestione di ulteriori flussi di profughi in arrivo dal Mediterraneo orientale.

Quanto al mercato cinese, è stato uno dei motori più importanti della crescita economica del Paese, sia attraverso il commercio (durante l’era Merkel le esportazioni tedesche verso Pechino sono quintuplicate) sia attraverso la presenza diretta da parte delle multinazionali, come le grandi case automobilistiche che ormai hanno in Cina la quota più rilevante di ricavi e produzione su scala globale o il colosso chimico Basf che investe 10 miliardi nel più grande impianto mai realizzato al di fuori dei confini tedeschi.

La Russia è stata invece il grande partner energetico, fornitore principale di gas e petrolio a prezzi convenienti anche dopo il 2014, quando Putin invase la Crimea e avviò il conflitto nel Donbass. Un partner talmente importante, nonostante la classe dirigente politica tedesca fosse consapevole della natura del regime di Mosca, dalla volontà di raddoppiare tale dipendenza attraverso il gasdotto Nordstream 2, progetto abbandonato (controvoglia) soltanto pochi giorni prima del fatidico 24 febbraio e su enorme pressione da parte degli Stati Uniti.

Olaf Scholz ha preso atto pienamente delle conseguenze dell’aggressione di Putin, condannandola senza esitazione e impegnandosi in aiuti umanitari, economici e militari all’Ucraina. Così come ha preso atto dell’ulteriore involuzione autoritaria della Cina di Xi Jinping dopo l’esito del Congresso del Pcc, salvo poi recarsi a Pechino con messaggi di “rimprovero” sul fronte del rispetto dei diritti umani, ma sempre accompagnato da decine di grandi gruppi per i quali il mercato cinese resta non solo irrinunciabile, ma decisivo per la loro crescita.

Nonostante la definizione di “rivale sistemico”, in realtà pronunciata già nel 2019 da un documento strategico della Bdi, la Confindustria tedesca, che rappresenta però soprattutto gli interessi della piccola e media impresa, Berlino continua a ritenere indispensabile mantenere aperto il canale di dialogo e coinvolgimento politico della Cina nelle grandi questioni internazionali.

In questo senso c’è una rimodulazione, e non un abbandono, anche nella postura di Scholz, dalla famigerata dottrina del Wandel durch Annaehrung, il cambiamento attraverso l’avvicinamento. La politica estera tedesca nel dopoguerra, ma soprattutto a partire dagli anni 80, è sempre stata ispirata dagli interessi delle grandi imprese. Ispirata non significa necessariamente che la componente economica sia stata l’unica determinante. Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl, perfino Gerhard Schroeder oggi discreditato, Angela Merkel e ora Olaf Scholz hanno creduto fermamente alla necessità di impegnare e responsabilizzare partner difficili e controversi come Cina e Russia anche favorendo il loro ingresso nelle organismi internazionali multilaterali.

Peccato che questa parte della loro equazione geopolitica non abbia funzionato e che d’ora in avanti, se si intende proseguire su questa strada, almeno con Pechino, si dovrà fare un aggiornamento periodico, vincolante, sulle questioni più strettamente legate al rispetto dei diritti umani e al possibile utilizzo di azioni di forza (ipotesi Taiwan) senza lasciarsi prendere troppo la mano da eventuali nuovi successi economici, come la ricerca del primato mondiale nella mobilità elettrica, che le case automobilistiche tedesche si giocano in Cina e contro la Cina al tempo stesso.

Con la «Russia di Putin», questa la definizione ricorrente di Scholz, il discorso sembra chiuso, la dipendenza energetica è stata rescissa con forza, rapidità, dolore e grande dispendio di risorse finanziarie (il famoso pacchetto da 200 miliardi che ha irritato i partner europei) e la prima delle quattro unità di rigassificazione previste già operativa da pochi giorni al Wilhelmshaven di Brema. Nonostante il grado di conoscenza delle dinamiche involutive della «Russia di Putin» fossero conosciute da tempo a Berlino, per ammissione della stessa ex cancelliera Angela Merkel, la consapevolezza della Germania è stata tardiva.

Ora l’auto-analisi di Scholz è precisa, ma non sempre è seguita da coerenza fattuale, come dimostrano, ad esempio, i tentennamenti sulla consegna di carri armati all’Ucraina, la decisione di “andare da sola” con un piano nazionale contro il caro energia e la riluttanza ad accordarsi su un tetto al prezzo del gas.

Quello che di sicuro sappiamo, dai discorsi, dagli articoli del cancelliere tedesco, è che la Germania sarà sempre più proiettata ad Est ed è il grande sponsor dell’allargamento dell’Unione europea ai Balcani, prima, e all’Ucraina in seguito. E che sarà una Germania con un esercito più potente e moderno che si propone – sottolinea Scholz nel suo recente articolo su Foreign Affairs – «come garante della sicurezza europea» perché, e qui entra in gioco il discorso di Praga, «il centro dell’Europa si sta spostando a Est».

Il resto è una nebulosa nella quale i partner europei, a cominciare da Italia e Francia, troveranno non poche contraddizioni. Ciononostante Berlino ha il merito, come le è già accaduto nel recente passato tra la fine del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio, di aver individuato e analizzato l’origine dei suoi problemi e di essersi messa in moto, anche se in maniera confusa e ancora poco strutturata, verso il cambiamento.