La Settimana Internazionale

La resistenza a sorpresa dell’industria europea

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di Federico Bosco

Nel 2022 l’Europa ha dimostrato di avere una capacità di adattarsi alla guerra economica di gran lunga superiore a quanto si potesse immaginare. Dopo due anni di pandemia, lockdown e costrizioni nelle supply-chain è arrivata l’invasione russa dell’Ucraina e con essa un anno di prezzi dell’energia semplicemente folli, costi dei carburanti alti, bollette altissime, inflazione, rincari su ogni listino e prezzi del gas naturale oltre i limiti dell’impossibile per tutti quei settori che lo usano come materia prima nei processi di produzione.

Dopo tutta questa pressione ci si aspettava che l’industria europea avrebbe pagato un prezzo altissimo in termini di produzione industriale, perdendo competitività nei confronti degli Stati Uniti, ormai arrivati alla piena autonomia energetica. Uno studio del Financial Times però rivela una realtà è diversa, e se si guardano i dati Eurostat sul volume della produzione industriale nell’Unione europea e della zona euro scopriamo che la Russia non è riuscita a schiacciare la manifattura europea privandola rapidamente della maggior parte del gas siberiano.

Al contrario, nel suo insieme l’Ue non ha mai raggiunto volumi di produzione manifatturiera pari a quelli di oggi, e lo stesso vale se si stringe il focus sulla sola eurozona, anche se volumi simili erano già stati raggiunti per due volte negli ultimi vent’anni (nel 2017 e nel 2008). I numeri variano di mese in mese, e in base ai singoli stati nazionali ci sono periodi con tendenze al ribasso. Ma se prendiamo i risultati aggregati dell’intera Ue nel periodo che va da settembre 2021 a settembre 2022 quasi tutte le nazioni l’hanno aumentata.

I dati non sono sufficienti per tutti i settori e tutti gli stati membri, ma esistono studi a livello nazionale che confermano la solidità delle due principali economie manifatturiere della zona euro: la Germania e l’Italia. Ben McWilliams, consulente del think-tank Bruegel, ha pubblicato dati che dimostrano che a ottobre l’industria italiana ha consumato il 24 per cento in meno di gas rispetto alla media del periodo 2019-2021, ma senza intaccare la produzione industriale.

Le stime dell’Istat infatti rilevano che ottobre 2022 l’indice destagionalizzato della produzione industriale è diminuita di appena un punto percentuale rispetto a settembre, con un aumento dello 0,3 per cento nella media del trimestre agosto-ottobre. La manifattura italiana è riuscita a superare gli ostacoli posti dai colli di bottiglia nelle supply-chain, l’inflazione e i prezzi altissimi dell’energia.

Anche l’industria tedesca si è dimostrata più resiliente di quanto temuto: mentre il consumo di gas è crollato del 15 per cento nei primi sei mesi del 2022 e di oltre il 20 per cento negli ultimi sei, la produzione industriale è rimasta sostanzialmente invariata, con l’eccezione del suo colossale settore della chimica, estremamente energivoro e pertanto costretto a ridurre l’output (a pieno regime il principale impianto della BASF consuma da solo più gas dell’intera Danimarca), ma che ciononostante non ha compromesso le altre industrie.

Gli esempi virtuosi sono tanti, anche negli altri Paesi. Valeo, fornitore dell’automotive francese, ha chiesto alle fabbriche di ridurre il consumo di energia del 20 per cento con misure come il fermo di produzione nel fine settimana e l’abbassamento delle temperature nei giorni lavorativi. Solvay, azienda chimica belga, si è organizzata per far operare le sue fabbriche con il 30 per cento in meno di gas utilizzando energia alternativa e caldaie mobili a diesel. Renault, nota casa automobilistica francese, ha ridotto il tempo di mantenimento a caldo della vernice, un processo della catena di montaggio che rappresentava fino al 40 per cento dei suoi consumi di gas.

Secondo Anouk Honoré, vicedirettore del programma di ricerca sul gas presso l’Oxford Institute for Energy Studies, in totale l’industria dell’Ue consuma circa il 28 per cento dell’offerta di gas in Europa. Tra agosto e novembre però Eurostat ha certificato che il consumo è diminuito del 20 per cento rispetto alla media quinquennale dello stesso periodo, superando l’obiettivo del 15 per cento stabilito da Bruxelles. Ipoteticamente, i volumi risparmiati colmano il vuoto di offerta lasciato dai gasdotti Nord Stream 1 (ormai chiuso) e Nord Stream 2 (mai entrato in funzione).

Tuttavia, anche se le imprese hanno fatto meglio della politica, le sfide da superare sono ancora molte. I dirigenti dei settori più dipendenti dal gas – dall’acciaio ai prodotti chimici, dalla ceramica alla fabbricazione della carta, dai fertilizzanti all’automotive – avvertono i legislatori che il rischio di perdere quote di mercato è alto, e continuano a ingegnarsi per ridurre i consumi di una risorsa che non tornerà ai prezzi del passato. Come e quanto ci riusciranno sarà visibile solo nel lungo periodo, ma già ora si può dire che – parafrasando Mark Twain – la notizia della morte dell’industria europea è fortemente esagerata.

Secondo molti esperti nei prossimi anni i contorni mutevoli del commercio mondiale disegneranno una sorta di “re-globalizzazione”, in cui le aziende adatteranno le proprie reti commerciali per accogliere le nuove sfide economiche e geopolitiche. Alla fine di questo processo, difficile e destinato a durare anni, le catene di approvvigionamento dovrebbero diventare più solide e probabilmente più costose, ma più efficienti, e meno vulnerabili alla pressione dei paesi ostili. Le modalità di produzione e le supply-chain cambieranno, ma la natura dell’economia aperta resterà la stessa.