La Settimana Internazionale

Spiragli di pace in Ucraina, ma solo perché si vota in America

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di Claudio Brachino

E alla fine il convitato di pietra bussò un colpo. Il convitato di pietra di tutte le discussioni che si fanno da quasi due anni sul conflitto russo-ucraino è la Pace. Il fatto che Zelensky abbia “aperto” sulla Crimea a una soluzione politica e non militare ha acceso molte speranze.

Finora il sostanziale stallo sul campo fra i contendenti trovava una sorta di specchio anche nello stallo diplomatico.

Putin non può accettare lo smacco di riconoscere di aver perso la guerra, Kiev non può sedersi a nessun tavolo per nessuna trattativa finché non ha recuperato i territori che considera suoi e che l’invasore le ha sottratto con la forza.

Tutte le proposte, Erdogan, la Cina, il Papa, si sono schiantate su questa distanza.

Per trattare ci vuole il cessate il fuoco, il cessate il fuoco vuol dire cristallizzare la situazione così com’è, ovvero Crimea e buona parte, quella con le materie prime e il carbone, nelle mani dei Russi. Oltretutto la tanto sbandierata controffensiva ucraina, la reconquista con le armi occidentali di quanto conquistato da Mosca con sangue ed orrore, procede a rilento.

La linea del lungo fronte sud-orientale, quasi 1.200 chilometri, rimane sostanzialmente intatta, una guerra di logoramento reciproco con trincee antiche, l’ombra della macelleria che fu la Prima guerra mondiale. Una macelleria a cui si aggiunge quella tutta moderna dei missili e dei droni, che colpiscono nei territori degli uni e degli altri. Circa mezzo milione di vittime calcolate fino a questo momento, una carneficina inaccettabile nel cuore dell’Europa.

Eppure, come detto nel nostro incipit, la Pace da tutti a parole invocata, anche da larghi pezzi dell’opinione pubblica dei paesi occidentali che pure forniscono armi in quantità all’Ucraina, è stata solo un convitato di pietra fra lo strepitio dei fucili.

Cos’è cambiato allora?

Joe Biden

La nuova variabile sono senza dubbio le elezioni americane del novembre 2024 e il segnale lo ha dato chiaro l’entourage di Biden, fervente sostenitore a colpi di miliardi di dollari dell’alleato e amico Zelensky. La guerra deve finire e il leader di Kiev deve sedersi al tavolo della diplomazia.

Il tempo stringe e i democratici non possono lasciare a Trump, probabile sfidante nonostante i guai giudiziari e probabile vincitore, l’arma di un conflitto cosi problematico non risolto. C’è chi si è affrettato a dire che la politica estera americana non cambia meccanicamente con il cambio dei Presidenti, e questo in parte è vero, basti penare che è stato il democratico Obama a porre termine con un violento blitz alla lunga caccia di Bush ad Osama Bin Laden.

È vero altrettanto però che se John Kennedy non fosse stato ucciso a Dallas il 22 novembre del 1963, la politica estera degli Stati Uniti negli anni ‘60 sarebbe stata radicalmente diversa e forse non avremmo vissuto la lunga e sanguinosa tragedia del Vietnam.

La Storia si ripete e insieme non si ripete mai, ma ora è importante al di là degli incubi retrospettivi o delle cause delle varie realpolitik interne, che la guerra Russo-ucraina abbia termine al più presto. Anche per noi europei, i più vicini, i più coinvolti, i più inutili per la pace.