La Settimana Internazionale

Tutte le mosse (e i ricatti) del Sultano per strappare l’ingresso nella Ue

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di Attilio Geroni

Il ricattatore seriale stacca un altro dividendo dall’Occidente. In cambio del via libera all’ingresso della Svezia nella Nato, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha ottenuto a Vilnius una promessa di riapertura del dossier sull’adesione di Ankara all’Unione europea. Questa sua svolta ha aperto la strada all’acquisto dei caccia americani F-16, finora tenuti in stand-by dall’Amministrazione Biden.

Erdoğan spinge ai limiti estremi l’accresciuto e innegabile peso geopolitico della Turchia, che può permettersi di negoziare con Mosca un accordo sul transito del grano nel Mar Nero (circa un anno fa) e poi disattendere i patti con il Cremlino rilasciando i prigionieri della brigata ucraina Azov, detenuti per procura; può tenere la Svezia sulla corda e rilanciare a sorpresa, dopo anni di allontanamento, sull’integrazione nella Ue.

La posizione strategica e le dimensioni sono le vere materie prime di questo Paese cerniera e del suo leader, capace di dialogare con Putin dopo aver fornito per anni i droni Bayraktar agli ucraini del Donbass che ora, pare, saranno addirittura prodotti in loco. Non è facile comprendere in pieno le mosse di Erdogan perché a lui non preoccupano le oscillazioni trovandosi con un piede in Europa e un altro in Asia e ha dimostrato più volte di sapersi muovere secondo la convenienza del momento.

L’Europa e la Nato hanno a che fare con un partner irrinunciabile e poco affidabile, che ha ormai cronicizzato l’arma del ricatto e dell’ambivalenza nei confronti dell’Occidente. Era stato così nel 2016, con l’accordo tra Unione e Turchia sui migranti, un’esternalizzazione dei flussi e del loro controllo nel Mediterraneo orientale in cambio di assistenza finanziaria per 6 miliardi di euro. Si è concesso il lusso, presidente di un Paese che dispone del secondo esercito Nato, di acquistare sistemi anti-missile dalla Russia.

E non è stato meno ambiguo nel ruolo di mediatore con la Russia di Putin, unico leader internazionale ad aver avuto un vero dialogo con il Cremlino dopo l’invasione dell’Ucraina.

Ora siamo di fronte alla sorpresa europea, alla volontà di riaprire il dossier dell’adesione ai Ventisette dopo che il Consiglio Ue lo aveva di fatto chiuso nel giugno 2018 prendendo atto della deriva sempre più autoritaria di Erdoğan. Difficile capire al momento quanto sia davvero europeista la svolta del presidente turco, dopo aver allontanato il suo Paese dagli standard democratici di riferimento dell’Unione.

Ankara ha bisogno di attrarre capitali esteri per finanziare un deficit delle partite correnti che rischia di finire fuori controllo e schiacciare ulteriormente la lira, che negli ultimi tre anni ha visto un crollo verticale del proprio valore a causa di politiche monetarie fantasiose – taglio dei tassi continuo per combattere l’inflazione a due cifre. Riaprire il negoziato con l’Unione europea o quantomeno ancorare nuovamente il Paese a un processo di integrazione dell’Occidente di solito favorisce una crescita dei flussi di capitale dall’estero. E questi flussi, vitali per l’economia turca, non possono provenire dalla Russia iper sanzionata e in guerra quanto, piuttosto, da Europa, Stati Uniti, Cina e Sud-Est asiatico.

In realtà, i rapporti tra Turchia le istituzioni europee sono di vecchia data. Ankara già nel 1987 presentò domanda di adesione all’allora Comunità economica europea e nel 1999 assunse lo status di candidato ufficiale. Nel 2005 avviò ufficialmente i negoziati, ma l’anno prima aveva dovuto subire il “sorpasso” dei Paesi dell’Est con il grande round di allargamento (10 nuovi Stati membri) del 2004. Il percorso è stato tortuoso: tanto per la Turchia quanto per l’Europa. La mancata soluzione della controversia su Cipro Nord, invasa dalle truppe turche nel 1974 in risposta a un tentativo di golpe sull’isole orchestrato dal regime militare della Grecia, ha certamente pesato.

Così come hanno certamente pesato sia il fattore Erdoğan (un allontanamento rapido dai valori fondamentali Ue sul rispetto dei diritti umani, dello Stato di diritto e della libertà d’espressione) sia la riluttanza europea ad accogliere al suo interno uno Stato islamico, nonostante la costituzione si professi laica. Famosa e decisiva fu l’opposizione della Francia di Nicolas Sarkozy, presidente eletto su una piattaforma politica che aveva al centro la difesa dell’identità nazionale per scongiurare il pericolo lepenista.

In ogni caso questo nuovo processo di riavvicinamento sarà lungo, anche perché in lista d’attesa ci sono già sei Paesi dei Balcani Occidentali, e sarà ancora più soppesato dalle istituzioni europee e dagli Stati membri. La disinvoltura e l’ambivalenza con la quale la Polonia e l’Ungheria si sono mosse negli ultimi dieci anni all’interno dell’Ue in difesa di interessi nazionali e a scapito del rispetto dello Stato di diritto, sono lezioni da non dimenticare nei prossimi round di allargamento.