La Settimana Internazionale

Xi e la prova del 5 (per cento): così la Cina tenta di far ripartire l’economia

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Di Giuseppe Marcata

Nella lingua cinese si dice liǎnghuì: per tutti gli altri sono le Due Sessioni, l’evento pubblico più importante della complicata architettura istituzionale della Cina, che ha preso il via lunedì a Pechino, per concludersi domenica. Tecnicamente si tratta delle sedute plenarie della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, istituzione incaricata di rappresentare i partiti politici della Repubblica popolare; e del Congresso nazionale del popolo, ossia l’organo legislativo unicamerale (di fatto, il Parlamento).

Al di là delle altisonanti definizioni, è l’evento che riunisce gli esponenti dell’élite politica: ogni anno le Due Sessioni rappresentano il momento apicale dell’attività parlamentare della Cina, e il Partito comunista presenta la propria agenda. Si registrano i cambi nei vertici politici, si annunciano piani e riforme, si fissano gli obiettivi di crescita.

Il rebus della crescita

Soprattutto quest’ultimo è il tema su cui si focalizza l’attenzione di tutto il mondo: l’economia cinese è la seconda al mondo, e quel che succede là ha enormi conseguenze per tutti, visto che è un partner commerciale prioritario per molti Paesi. È la locomotiva che per anni ha trainato la crescita globale ma ora comincia a perdere colpi. Come previsto alla vigilia, il primo ministro Li Qiang ha annunciato che l’obiettivo del governo nel 2024 sarà una crescita del 5% del Prodotto interno lordo; il target del rapporto deficit-Pil è stato fissato al 3%, in calo rispetto al 3,8% annunciato per il 2023.

Il capo del governo cinese ha comunque ammesso che «ci sono delle difficoltà da risolvere», «le fondamenta per una ripresa sostenuta e la crescita non sono abbastanza solide» e ha elencato «domanda insufficiente, eccesso di capacità produttiva in alcune industrie, aspettative basse della società e molti rischi prolungati». In tribuna un impassibile presidente Xi Jinping.

Sufficienza risicata

Tornando al Pil, il 5% è lo stesso obiettivo che era stato annunciato per l’anno scorso, che si è poi chiuso con un +5,2%. Numeri che a casa nostra, con il nostro metro di valutazione, festeggeremmo stappando champagne: si consideri che nel 2023 gli Usa sono cresciuti del 2,5%, l’Eurozona dello 0,5%, la Russia lo 0,7%. Ma in realtà si tratta di una sufficienza risicata sono letta nel contesto cinese: non a caso gli analisti considerano il 5% un traguardo piuttosto ambizioso. Tant’è che il Fondo Monetario Internazionale ha avanzato per il colosso asiatico una stima intorno al 4% a fine anno.

Il dato di fatto è che l’economia cinese non riesce più ad assicurare i tassi di crescita vertiginosi degli anni passati: per tre decenni, almeno fino al 2013, il Pil è aumentato con una media annua del 10%, trasformando un’arretrata economia agricola in una potenza planetaria. Se si esclude il periodo buio del Covid, quando il Pil è crollato sottozero come per tutti gli altri, il risultato del 2023 è uno dei peggiori da quando sono state avviate le riforme di mercato alla fine degli anni ’70; solo il 2022 ha fatto peggio (+3%).

«Nuove forze produttive»

Il governo professa ottimismo, crede nel rimbalzo dell’economia e assicura che lavorerà per espandere la domanda interna e accelerare le riforme dal lato dell’offerta tra le difficoltà e le sfide dell’economia globale. E probabilmente metterà mano al portafogli per nuove misure di sostegno, strumento largamente utilizzato. Li Qiang ha anche detto che la Cina investirà nell’ammodernamento delle industrie e nello sviluppo di «nuove forze produttive qualitativamente elevate» a un ritmo più rapido: la sua relazione pone l’accento sull’aggiornamento industriale e delle catene di fornitura, nonché sullo sviluppo delle industrie emergenti e di quelle orientate al futuro, come idrogeno, aerospazio e tecnologia quantistica.

Ma analisti ed economisti oramai da tempo si interrogano sulla profondità di queste difficoltà: è giunto al termine il modello cinese di crescita? Il Dragone ha scommesso negli anni su consumi, export e investimenti come driver della crescita. Fattori che nella politica economica si sono alternati come traino per centrare i target di crescita: dagli anni ’80 al 2008 si è insistito sull’export; dopo la crisi finanziaria globale c’è stato un boom di investimenti nel settore delle costruzioni e nelle infrastrutture; dopo il 2014 si è cercato di spingere sui consumi e sulla qualità della produzione, sia perché l’indebitamento era troppo elevato per continuare con gli investimenti, sia per essere meno esposti alle variabili geopolitiche, che chiudono mercati e limitano l’acquisizione di tecnologie avanzate.

Crac dell’immobiliare, ma non solo

Nel frattempo sono venuti al pettine diversi nodi: dopo anni di sovrainvestimenti, il settore immobiliare – vero motore della crescita – attraversa una crisi nera. Nel 2023 le nuove costruzioni sono diminuite del 21% mentre le vendite di nuove abitazioni sono scese del 6,5% (dopo il crollo di quasi il 27% nel 2022); son serviti a poco i 70 miliardi di dollari pubblici a sostegno del comparto. Il colosso Evergrande, uno dei simboli dell’economia rampante ed esplosiva, è stato dichiarato fallito il 29 gennaio. E Country Garden, il più grande sviluppatore immobiliare privato, ha riferito di essere alle prese con la richiesta di liquidazione sul mancato rimborso di un prestito del valore di 1,6 miliardi di dollari di Hong Kong (circa 205 milioni di dollari Usa), promossa da un creditore.

Ma la lista dei problemi è lunga: i consumi sono bassi, le esportazioni non crescono più come un tempo, la disoccupazione giovanile è altissima, prosegue l’emorragia degli investimenti esteri. Con il reshoring molte aziende portano gli stabilimenti fuori dei confini, in cerca di condizioni migliori; e le ultime restrizioni varate da Pechino in tema di anti spionaggio hanno acuito la fuga.

La morsa di Xi sul partito

Le Due Sessioni si sono aperte con le dichiarazioni di Lou Qinjian, portavoce del Congresso nazionale del popolo, incentrate sia sull’economia sia sulla politica internazionale, con un ramoscello di ulivo offerto agli Stati Uniti, con cui è in corso un duro braccio di ferro commerciale: indipendentemente da chi sarà il prossimo presidente, la Cina punta a relazioni bilaterali «stabili, solide e sostenibili». Si è parlato anche del budget militare: rispetto al Pil «sarà una percentuale inferiore a quella di altri Paesi. Manterremo la spesa bassa»; nel 2023 era al 7,2%, quest’anno «resterà su livelli ragionevoli e stabili, in linea con lo sviluppo sociale e le necessità di difesa».

Ma l’evento nella capitale cinese è anche l’occasione per definire i rapporti di forza tra gli uomini al potere. E di “misurare” la presa del presidente Xi Jinping sul partito. I 2.956 delegati del Congresso nazionale del popolo approvano tutto quello che viene loro sottoposto, ma mantengono una piccola libertà con il voto segreto: le percentuali di approvazione sono la cartina di tornasole della popolarità del capo. Inoltre ci sono delle caselle vuote da riempire: Qin Gang è stato rimosso dalla carica di ministro degli Esteri e “cancellato” dal Consiglio di Stato.

Sta facendo discutere la decisione di annullare l’incontro del primo ministro con la stampa cinese e internazionale al termine della sessione parlamentare, una tradizione iniziata nel 1993 e che ogni anno rappresentava un momento importante per osservare l’apertura e la trasparenza. Una mossa interpretata come una forma di chiusura del partito, qualche politologo si è spinto a leggervi un ulteriore ridimensionamento dei poteri del primo ministro. Alla chiusura delle due sessioni del 2023 Li Qiang, appena nominato, cercò nella conferenza stampa conclusiva di rassicurare il settore privato del Paese, nonché gli investitori esteri sull’impegno della Cina «ad aprire sempre di più il Paese verso l’esterno».

Natalità addio

Tra i temi sul tavolo anche la possibile rimozione dei limiti ancora in vigore sulla natalità. L’anno scorso si sono registrate 500mila nascite in meno. E l’inarrestabile crescita demografica è stata uno dei fattori che ha messo il turbo all’economia negli ultimi decenni. Anche sul fronte delle nascite, il Dragone non ruggisce più.