La Settimana Politica

La crisi del “Capitano” e i malumori della Lega che spaventano il Governo

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Io, capitano”, per rimanere nel perimetro aspirazionale da notte degli Oscar, non è solo il titolo del bel film di Matteo Garrone che l’Academy ha scelto di non premiare ma è, verosimilmente, il mantra di queste ore con cui il segretario federale della Lega (e vicepremier e ministro delle Infrastrutture) Matteo Salvini sta provando a mantenere compatta l’anima più profonda del Carroccio.

La Sardegna prima (con quel misero 3,8% che ancora brucia) e l’Abruzzo poi consegnano agli osservatori della politica italiana un leader che a parole ha ben assorbito anche il crollo di domenica scorsa (7,5% di voti contro il pirotecnico 25% del 2019, peggio perfino delle Politiche 2022, quando l’asticella si fermò al 9%) ma che nella realtà deve fare i conti con il dissenso dell’ala ribelle del partito e la vera e propria irritazione di alcuni storici esponenti della prima ora che da settimane parlano ormai apertamente della necessità di un cambio di leadership prima dell’appuntamento europeo del 9 giugno.

La clamorosa intervista a La Repubblica dell’Europarlamentare Gianantonio Da Re («O il cretino se ne va con le buone o andiamo in via Bellerio e glielo facciamo capire con le cattive» il succo – alla lettera – dell’intervento) ha offerto la rappresentazione plastica di quanto il carisma del segretario sia ai minimi storici. Da Re è stato subito cacciato dalla Lega dopo una militanza lunga e fin qui specchiata ma di sicuro ha scoperchiato il vaso di Pandora dei malumori interni al Carroccio, sintetizzati nella lapidaria dichiarazione del fondatore e presidente a vita Umberto Bossi indirizzata a Salvini:

«Ha le sue idee. Poi bisogna vedere se sono quelle giuste»

Gelo. Punto e a capo, lettera maiuscola. Gli 80 parlamentari che secondo Da Re «aspettavano solo il voto dell’Abruzzo per muoversi» al momento non paiono volersi ammutinare, ma lo strappo esiste e si tratta di capire se sarà ricucito in vista del voto europeo (dopo del quale, liberi tutti) o se finirà con diventare insanabile: a quel punto le strategie del “Capitano” costretto a salire sulle barricate potrebbero diventare imprevedibili con pesantissime ripercussioni sugli equilibri di governo, che proprio le elezioni abruzzesi hanno pesantemente ridisegnato.

Antonio Tajani ha portato gli azzurri di Berlusconi al 13,4% (era l’11,1 nel 2022), forte anche delle 9600 preferenze di Roberto Santangelo, che dalla Lega è passato a FI; una migrazione certo decisiva ma che certifica i leghisti abruzzesi come dei liberali che nel silenzio della cabina elettorale hanno disapprovato la linea del leader. Stampella decisiva per la coalizione ma con rapporti gerarchici all’interno della stessa ormai rovesciati, la Lega – smarcata la candidatura delle prossime regionali in Basilicata (sul forzista Vito Bardi, governatore uscente, l’accordo è stato trovato senza troppi giri di parole e ghirigori a uso mass-media) – deve sbrogliare quanto prima la matassa delle candidature alle europee.

Il generale Roberto Vannacci resta un pallino di Salvini («È un esponente dell’esercito che ha combattuto per l’onore del Paese in giro per il mondo, è una di quelle che persone che mi piacerebbe avere a bordo per realizzare un’idea diversa di Europa») ma buona parte dello stato maggiore del Carroccio continua a considerarlo un “corpo estraneo”, ancor più dopo il risultato dell’Abruzzo che ha inferto un altro colpetto al monumento del Capitano e delle sue scelte fin qui insindacabili.

Proprio la Basilicata viene vista ora come l’ultimo spartiacque possibile: se la Lega dovesse finire ancora dietro Forza Italia e riconfermarsi sul gradino più basso del podio dell’alleanza di centrodestra la fronda interna difficilmente rimarrebbe dormiente, soprattutto dopo le dichiarazioni di giubilo di Salvini per il risultato in Portogallo della destra estrema di Chega e del suo numero uno André Ventura che ha portato i nazionalisti a oltre il 18% (terzo partito del Paese). Dichiarazioni che suonano come l’ennesimo distinguo dal resto della coalizione e a cui Salvini sembra intenzionato a dare forma e sostanza il 23 marzo a Roma in un evento bis come quello di Firenze dello scorso 3 dicembre, ancora con Marine Le Pen e l’immancabile Vannacci questa volta sul palco degli Studios di Tiburtina. Solo che di questa ennesima manifestazione ultra-destrorsa pare che dentro i vertici del Carroccio nessuno fosse a conoscenza, anzi che lo abbiano appreso direttamente dalle agenzie di stampa.

Così, dentro il partito si sta consumando una silenziosa e velenosissima diaspora: da una parte i fedelissimi del leader, dall’altra tutti gli altri. In mezzo, le fibrillazioni che potrebbero tornare a scuotere con vigore l’esecutivo: dal tira e molla sul terzo mandato (che rischia concretamente di sottrarre alla Lega la figura del governatore veneto Luca Zaia) al premierato, dalla richiesta di guidare la commissione sul dossieraggio fino al nodo delle candidature per Bruxelles e il posizionamento degli alleati all’interno dei grandi raggruppamenti europei.

Meloni e Tajani per ora stanno alla finestra: i mesi caldi si avvicinano e con essi sono cominciati gli scongiuri per evitare lo spettro di un altro Papeete.