La Settimana Politica

Recovery Plan: margini stretti per il ministro Fitto

Scritto il

di Veronica Schiavone

Un PNRR concepito nel 2020 e non più corrispondente alle attuali esigenze dell’Italia. E per questo da riscrivere. Sarà questo il leitmotiv delle interlocuzioni tra governo italiano e commissione europea che si snoderanno lungo tutto il mese di aprile. Un mese decisivo per capire se e in che termini il Piano nazionale di ripresa e resilienza potrà cambiare. Nelle scadenze ma anche negli obiettivi da raggiungere.

Il ministro Raffaele Fitto, delegato al PNRR, presenterà a fine mese, al più tardi all’inizio di maggio, la relazione semestrale a Bruxelles dove si farà il punto di cosa è stato fatto e soprattutto di cosa l’Italia ritenga non si possa più fare.

Nell’ultima cabina di regia palazzo Chigi, Fitto ha chiesto a tutti i ministeri titolari di interventi finanziati dal Recovery di procedere a un monitoraggio accurato, anzi a una «risonanza magnetica» (l’ha chiamata così) dei progetti, in modo da arrivare a fine mese con un dossier completo da consegnare a Bruxelles. Dal canto suo, il commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni ha lasciato intendere che il tema dello spostamento della deadline del Recovery Plan oltre il 2026 non è più un tabù e che la Commissione «lavorerà con il governo per rendere il PNRR italiano il più possibile attuabile».

Ma quanto potrà cambiare il PNRR italiano?

I margini di intervento ci sono ma sono ristretti.

La Commissione ha già approvato la revisione dei piani di Lussemburgo, Germania e Finlandia e quindi, un’eventuale proroga non sarebbe vista come il solito favore fatto dall’Europa alla solita Italia incapace di rispettare patti e scadenze.

Ma c’è un elemento che differenzia nettamente il nostro PNRR da quello degli altri paesi europei: l’entità delle risorse ricevute.

L’Italia con i suoi 191,48 miliardi (di cui 122,6 in prestiti e 68,88 in sovvenzioni a fondo perduto) è il Paese più premiato dal Next Generation Eu, e per questo più sotto la lente di Bruxelles.

Dietro l’Italia, la nazione che riceverà più risorse dall’Europa è la Spagna con 69,5 miliardi di sovvenzioni ma nemmeno un euro di prestiti. Al terzo posto la Francia a cui andranno 39,36 miliardi di sovvenzioni e anche in questo caso zero euro di prestiti.

Bastano questi dati per comprendere la distanza “siderale” che c’è tra gli impegni presi dall’Italia e quelli degli altri Paesi Ue.

Da solo il PNRR tricolore vale infatti il 26,5% del totale europeo. E per questo l’attenzione della Commissione sull’Italia è più vigile, perché un fallimento del Recovery Plan italiano rappresenterebbe un fallimento per l’intero Piano.

La scorsa settimana, in occasione della presentazione della Relazione Corte conti sul PNRR (da cui è emerso che solo il 6% dei finanziamenti è stato effettivamente speso) Fitto ha parlato per la prima volta apertamente di modifica degli obiettivi PNRR.

Il governo punta recuperare risorse da quei progetti che sono all’interno del PNRR ma hanno una capacità di spesa che consente un riallineamento con l’orizzonte temporale dei Fondi di coesione il cui ciclo di programmazione terminerà nel 2029. Tre anni in più che consentirebbero di dare un po’ di respiro a molti progetti oggi con l’acqua alla gola come gli asili nido, ad esempio. Spostando sulla Coesione alcuni progetti del PNRR, si libererebbero risorse da destinare ad altri capitoli a cominciare da RePower EU (il piano della Commissione europea per rendere l’Europa indipendente dai combustibili fossili russi prima del 2030).

Questa è la prima opzione. La seconda è quella di rinunciare tout court ad alcuni progetti, quindi spendere meno per indebitarsi meno con l’Europa, visto che, come detto sopra, su 191,5 miliardi di fondi ricevuti 122,6 sono prestiti, seppur a tasso agevolato.

A rompere gli indugi è stato il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari con un ragionamento semplice che però ha avuto l’effetto di uno tsnumani in uno stagno. «Ha senso indebitarsi con l’Ue per fare cose che non servono? O si cambia la destinazione dei fondi o spenderli per spenderli a caso non ha senso. Forse sarebbe il caso di valutare di rinunciare a una parte dei fondi a debito» si è chiesto. Apriti cielo. Le opposizione sono insorte ed è dovuta intervenire Giorgia Meloni in persona per chiarire che il governo «non prende in considerazione l’opzione di perdere risorse, ma di farle arrivare a terra in maniera efficace».

Per superare i rilievi di Bruxelles sugli obiettivi di fine 2022 (a cui è legato il pagamento della terza rata pari a 19 miliardi) l’esecutivo starebbe pensando a una correzione in corsa di alcuni punti critici, a cominciare dalle concessioni portuali e dal rafforzamento della capacità amministrativa degli enti locali. Per quest’ultimo intervento il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge ad hoc che punta a rimpolpare gli organici delle PA centrali (con oltre 3mila assunzioni programmate nei ministeri) e degli enti locali con un nuovo giro di stabilizzazioni.

E intanto dai ministeri trapelano le prime indiscrezioni su quanto si potrà cambiare dei progetti di competenza di ciascun dicastero. Il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, titolare di molti interventi cruciali per il Recovery, non cambierà nulla. Si andrà avanti con il piano di rimboschimento delle città metropolitane e con i progetti sull’idrogeno. Anche il ministero dei Trasporti non intende cambiare nulla. In ballo ci sono 60 miliardi di progetti (40 diretti e 20 di fondi complementari) su ferrovie, digitalizzazione, innovazione ed efficienza energetica. Stesso discorso anche per il ministero della Giustizia: per ora via Arenula non modifica nulla e non rinuncia nemmeno a un euro. Il problema sarà capire se tutto ciò sarà compatibile con l’orizzonte temporale del 2026. Una deadline che inizia a essere non così lontana.