Le opinioni

Burocrazia 4.0: rivoluzione digitale inutile senza nuovi processi

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di Antonio Dini (Giornalista e scrittore)

Si dice che se non possediamo la parola per dire una cosa, quella cosa non riusciamo a pensarla. Se manca il termine, manca l’idea e quindi manca proprio la cosa in sé. È l’unica spiegazione possibile al problema della nostra burocrazia che, con il digitale, è diventata paradossalmente ancora più soffocante.

Il problema è reale: la burocrazia è veramente opprimente. Se dovete scaricare una app della Pubblica Amministrazione, autenticarvi e farla funzionare servono più passaggi che per entrare nelle segrete di una banca svizzera. Se alla scuola dei vostri figli dovete chiedere una variazione del menu della mensa, se in azienda dovete fare una procedura diversa da quelle già previste, se su un sito di servizi (treni, gas e luce) dovete cercare un documento, c’è semplicemente da impazzire.

Qualche settimana fa, certo con le migliori intenzioni, l’amministrazione che gestisce l’app IO ha comunicato che adesso ci sono «oltre 178mila servizi a bordo». È lodevole lo sforzo ma il problema è che ci sono troppi servizi, cioè troppe pratiche burocratiche. Andrebbero rivisti, sfrondati e infine eliminati al 99%. Se ci pensate, parlarne ancora nel 2023 è surreale. La burocrazia era il male dei nostri padri, dei nostri nonni. Oggi dovrebbe essere la professione più a rischio di tutte. Scomparire grazie al digitale. E invece è ancora qui, più vitale che mai.

Nell’ultimo decennio abbiamo visto cambiamenti notevoli. Nella realtà però chi ha fatto veramente passi da gigante sono i burocrati e i loro apparati, sia pubblici che privati. Abbiamo moltiplicato le possibilità di renderci la vita più complicata, anziché semplificarla.

In una maniera paradossale, con il digitale le pratiche sono aumentate. Le informazioni sono molte di più e richiedono sempre più passaggi. Documenti da creare e salvare, firmare in maniera più o meno digitale, caricare su siti web, ricevere via email, tramite Pec, dentro le app. Evidentemente stiamo sbagliando approccio: anziché moltiplicare le procedure o introdurre le intelligenze artificiali per cercare di gestirle (dato che sono fuori controllo), dovremmo rendere semplici e “liquidi” i flussi delle informazioni.

C’è una soluzione? Forse.

Tempo addietro ho letto per caso di una distinzione linguistica che viene fatta in inglese tra due parole che noi invece in italiano abbiamo “fuso” in una sola. Il nostro “digitalizzazione” copre il significato sia di digitization che digitalization, due parole con significati diversi. La prima indica il processo di trasformazione di un foglio di carta nel suo equivalente digitale: di solito un Pdf o un documento Word ma anche una pagina Web. Il documento però rimane uguale: il carrello delle pratiche diventa digitale, gli uffici competenti rimangono sempre gli stessi, i requisiti, le firme, le parti da compilare “solo se”, “se non” o “in alternativa” sempre quelle. Resta foglio di carta virtuale e segue flussi documentali addirittura più complessi, perché diventa più facile disseminarlo.

Invece, la “digitalization” è la pratica che utilizza la tecnologia per migliorare i processi aziendali o dei servizi pubblici. Perché c’è un documento? Quali informazioni contiene? Perché deve essere compilato? L’idea è che le informazioni già ci siano e non sia necessario che un povero cittadino o impiegato debba rimetterle assieme mille volte. In poche parole, la “digitization” riguarda le informazioni, mentre la “digitalization” riguarda i processi.

Peccato che in italiano non le distinguiamo e per di più facciamo riferimento solo al primo significato. Altri termini, come trasformazione digitale e via dicendo, hanno mescolato un po’ le carte perché hanno aggiunto anche cose che, a mio avviso, vengono dopo: i cambiamenti culturali, le trasformazioni economiche sono le figlie dei nuovi processi; creano nuove “teste” e abilitano nuove possibilità. Ma serve fare un passo alla volta, non mescolare i concetti (la rivoluzione con i processi).

Qual è la soluzione alla mancanza di una parola che ci impedisce di pensare un concetto? Semplice: inventarsela. Forgiamo la parola e facciamola nostra così poi sappiamo come chiamare quell’idea che oggi non ha nome. Quale sarà questa parola? Possiamo lasciarlo alla fantasia di chi deve decidere. Basta che lo faccia.