Le opinioni

Regole certe e riforma tributaria per il reshoring italiano

Scritto il

di Giuseppe Pizzonia
(Docente di diritto tributario)

Le vicende planetarie degli ultimi anni – non solo pandemia e guerra – hanno innescato/accelerato grandi cambiamenti. Tra questi, un deciso ripensamento delle filiere di produzione e delle catene del valore, queste essendo incentrate – fino al primo ventennio del secolo – sull’onda di una irreversibile e salvifica globalizzazione. Un modello con limiti evidenziati da tempo, non bene intesi, ed ora diventati di colpo evidenti. Uno dei leit motiv era quello della delocalizzazione; una divisione mondiale del lavoro, con la manifattura in aree depresse a bassi costi e minime tutele e con servizi a valore aggiunto e finanza concentrati in aree istituzionalmente evolute.

Tutto rimesso in gioco, prima dalle crisi finanziarie, poi da quelle sanitarie, infine da quelle geopolitiche, mentre aleggia lo spettro della bomba sociale. Repentinamente, si inverte il percorso, dalla delocalizzazione al reshoring, in una sorta di ammuina planetaria dagli esiti incerti.

In sé, non un fatto negativo, ma certo un fenomeno da gestire, per evitare che siano altri a trarne vantaggio. La spinta verso la delocalizzazione non era mossa solo dalla ricerca di bassi salari e bassa fiscalità, ma anche dalla ricerca di piazze affidabili, sul piano materiale (infrastrutture) ed istituzionale (amministrazione, ordinamenti, giustizia). Ingenuo pensare che un’impresa seria si sposti solo per pagare meno tasse, dovendosi considerare i costi occulti, per esempio di una giustizia ondivaga, lenta, barocca, o di una amministrazione dominata dall’efficientissimo UCOS (ufficio complicazione affari semplici).

Per cogliere l’onda del reshoring, il nostro Paese deve quindi capire bene cosa ha spinto tanti ad andare altrove, per poi rimuovere i vari fattori di inefficienza del sistema Italia. Qui solo qualche esempio. La fiscalità: non occorre essere un paradiso fiscale, ma si devono rimuovere le scorie di inferno fiscale che ancora ci affliggono.

Molto è stato fatto, soprattutto per aprirsi alle imprese estere, con il ruling internazionale, l’interpello per i nuovi investimenti, l’adempimento collaborativo, le procedure amichevoli internazionali (MAP), la disciplina del transfer price, gli incentivi per ricerca e sviluppo.

Tanto si può ancora fare; occorre un codice dei tributi fatto di regole semplici e stabili, ridurre la pressione fiscale, estendere la prevenzione ed il contraddittorio, indirizzare i controlli verso gli illeciti più gravi e non sulla evasione interpretativa. Insomma, occorre una vera riforma fiscale, basata su una visione del mondo che verrà e non su semplice manutenzione; non basta un cacciavite, occorre un cannocchiale e chi sappia dove guardare.

Più difficile la previsione di incentivi mirati, non solo per il costo in bilancio, ma per il divieto europeo di aiuti di Stato che limita fortemente le tecniche di leva fiscale dei singoli Paesi. Veniamo da una fase di helicopter money a base di bonus e regalie varie; è costata troppo e non sarà più così tollerata.

Ma la fiscalità non basta. Da rivedere il ruolo dello Stato e della amministrazione, ripensando le funzioni di servizio pubblico e la nozione di interesse generale. Troppi particolarismi, strumentalizzati dai difensori dello status quo, hanno sclerotizzato l’Italia.

Last but not least, la giustizia. Occorrono regole certe, essenziali, garanzie, efficienza, risultati, non effimeri protagonismi ad uso dei media. Vaste programme, direbbe qualcuno, ma questo è il momento delle scelte e dei cambiamenti.