Nel Mondo delle Pmi

Bassetti: dal Made in Italy al “fatto dagli italiani”

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di Gabriele Politi

Nell’intervista della scorsa settimana rilasciata al Settimanale di PMI.it, Fabio Papa ha preconizzato il 2050 come l’anno in cui l’economia italiana potrebbe essersi estinta per diversi fattori, tra cui il fallito passaggio generazionale tra padri imprenditori e i figli, i giovani che non studiano né lavorano e la crisi demografica.

Lei è d’accordo con quanto sostenuto dal docente universitario?

R. Sono d’accordo su alcune ipotesi dedotte da quell’intervista: l’ipotesi principale è che l’economia italiana, soprattutto quel tipo di economia a cui il vostro Settimanale si riferisce, vale a dire quella nuvola di piccole e medie imprese generate dalla nostra esperienza post-bellica e particolarmente concentrata nel nord Italia e nella Brianza, viene “assunta” nello schema nazionale.

Poi ci si deve rendere conto che l’economia del nord non fa più riferimento, nemmeno per i dati demografici e anche strutturali, al territorio e i suoi limiti – che tra l’altro sono espressione di un mondo che sta per finire, ovvero il mondo dei nazionalismi – ma è connessa inscindibilmente con una dimensione mondiale. Se si prendono i dati di Papa, per esempio, si vede che gran parte della emigrazione è emigrazione di giovani. Questi giovani sono in giro soprattutto per l’Europa ma anche nel resto del mondo, quindi se prendiamo questa dimensione che io chiamo “italica” vediamo che la “italicità” è ormai penetrata a livello globale e allora il discorso cambia radicalmente.

In una prolusione all’Università della Tuscia Lei ha parlato di “Italica Community”. Cosa intende con questo termine?

R. Intendo semplicemente la comunità di quelli che io definisco “italici”. Questo schema tra l’altro è antico, perché è lo schema dell’Impero Romano. Il mio discorso identifica l’italianità non in base ai confini, ovvero la dimensione del cuius regio eius religio, cioè il luogo dove sei nato che identifica la tua nazionalità e la nazionalità che identifica la tua personalità; io ritengo che l’italicità sia una dimensione culturale e geografica che trascende i confini. Noi siamo uno stivale, l’importante è stabilire di che gamba e per quale finalità.

L’Italia, soprattutto quella del nord, in questo momento non è chiusa in sé stessa: la Brianza non lavora solo per i brianzoli e gli italiani non lavorano o esprimono i propri valori solo per chi sta all’interno degli spazi della Repubblica ma si rivolgono a tutto il mondo. Basti pensare ad “Eataly”, per dire, che ha avuto il coraggio di inserire perfino nel nome il concetto di Italia e che non a caso è stata recentemente comprata e inserita in un contesto globale, perché essendosi concentrata a lungo solo sull’Italia si è trovata squilibrata. Questa è una dimensione molto concreta e se l’italicità non viene vissuta come tale rischia di non avere possibilità di sviluppo.

Il Made in Italy deve quindi essere superato dal “Fatto dagli Italiani” indipendentemente dal luogo?

R. Sì, è quello che io chiamo “Made by Italics”. Assieme all’intervista a Papa avete citato il caso di Brazzale (che produce formaggi italiani in Repubblica Ceca e contestualmente ha aumentato i dipendenti nella sede di Zanè (VI) – pag. 21 del Settimanale N.06 – ndr). Lui è stato un convinto assertore del fatto che il Made in Italy è limitativo. L’azienda produce dell’ottimo formaggio che, se uno volesse collocarlo, apparterrebbe alla odiatissima categoria dei cosiddetti parmesan, considerata un dramma quando invece credo che sia una semplice manifestazione di concorrenza. È il classico esempio di chi non sta nel vestito stretto del Made in Italy ma in teoria non ci potrebbero stare nemmeno colossi come Barilla e Ferrero. Se lei mangiasse un vasetto della famosa crema spalmabile a New York non mangerebbe un prodotto Made in Italy perché è realizzato in Canada, però è fatta “by Italics”, da un saper fare e da una cultura che è solo e soltanto nostra. Purtroppo questa dinamica viene osteggiata per una miopia contingente, perché se si pensa che la moda francese è per due terzi fatta da nomi italiani…a loro non importa che le borsette vengano realizzate in Italia, tanto poi le vendono con i loro marchi.

A me interessa anche il dato demografico: è vero quello che dice Papa, cioè che nel 2050 paradossalmente saremo tutti morti, ma i nostri “partner” italici – parliamo di circa 250 milioni di persone – non saranno affatto morti,

perché la comunità degli italici non è in via di estinzione come siamo noi.

Come si può coniugare il concetto di “Glocal” che Lei sostiene da tempo con uno scenario come quello descritto da Papa?

R. Lo si può fare a condizione che si faccia saltare il limite nazionalista della frontiera e si consideri la comunità come una comunità che deve avere minimo una dimensione europea e, nel caso nostro, una globale. Dobbiamo avere il coraggio di capire che all’interno della dimensione nazionale l’Italia non può più stare. L’Italia ha sempre prosperato quando trascendeva il confine ideale, a cominciare da Roma per passare al Medioevo e al Rinascimento, passaggi che sono stati tutti a carattere meta-nazionale.

Ritengo che gli italiani stiano ancora proponendo la dimensione “glocal” nel senso che la bontà del risotto o del tiramisù non è offerta soltanto a coloro che sono dentro al confine italiano e nemmeno a quelli che sono dentro al confine europeo ma è proposta a tutti.  Così come è proposto a tutti il genio del nostro design e come è proposto a tutti il concetto della nostra cultura e della nostra tradizione. Quella che cammina non solo sulle gambe degli italiani che stanno in Italia ma che cammina, anzi, soprattutto quella, sulle gambe di chi ha oltrepassato i confini per sviluppare sé stesso fuori dal territorio dello stivale.