Scenari

Bce medicina amara, attenzione a tempi e dosi

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di Mariarosaria Marchesano

La frase che si sente ripetere spesso quando si parla di tassi d’interesse è: “non è finita qui”. L’ha detta e ripetuta la presidente della Bce, Christine Lagarde, al forum di Sintra a giugno ed è stata acquisita dal linguaggio comune dopo il rialzo di fine luglio, al quale potrebbe seguirne un altro in autunno.

Non è finita perché l’inflazione resta su livelli elevati sebbene si sia ridotta dai massimi di fine 2022, quando nella zona euro aveva quasi raggiunto il 10% (oggi è poco sopra il 5) e, comunque, lontana dall’obiettivo del 2% che la Banca centrale europea intende perseguire seguendo la linea dafalco” che ormai è diventata prevalente all’interno del gran consiglio (da cui, peraltro, è in uscita Fabio Panetta per assumere la guida di Bankitalia).

Ma siccome la politica monetaria sta avendo un impatto brutale sulla vita di cittadini e imprese a causa della velocità con cui si stanno susseguendo gli aumenti dei tassi rispetto al passato (ben nove rialzi in un anno) la domanda che molti si pongono è perché la Bce debba provocare una recessione proprio ora che l’Italia sta crescendo più degli altri Paesi in Europa: Confindustria e governo su questo punto sono in piena sintonia.

L’obiettivo di dominare l’inflazione non dovrebbe andare a scapito della crescita economica, questo è grosso modo il ragionamento, che però non tiene conto dei danni che l’inflazione fa alle tasche di famiglie e imprese. Se non ci fosse la politica monetaria, l’inflazione starebbe erodendo il potere di acquisto delle famiglie e i loro risparmi il doppio di quanto l’attuale livello dei prezzi sta comunque facendo.

Dunque, la stretta monetaria appare come una medicina necessaria; il problema, piuttosto, è capire in quali dosi e per quanto tempo il malato Europa dovrà assumerla. Su questo punto regna una certa confusione perché si va dalle previsioni più ottimistiche (sempre meno, per la verità) di analisti e centri studi che vedono l’inizio della discesa della curva dei tassi già da quest’anno, a quelle più pessimistiche che prevedono almeno altri due rialzi dopo l’estate con tasso finale di riferimento intorno al 5%.

Il focus della Bce è rappresentato dall’inflazione “core”, depurata del costo dell’energia, e dall’andamento dei servizi, settore che sta riscontrando una domanda particolarmente forte. Inoltre, il mercato del lavoro resta un osservato speciale per capire se si può generare la classica spirale prezzi-salari, cosa per la verità non avvenuta finora nonostante ci siano stati alcuni aumenti e la disoccupazione si sia ridotta al 6,5 per cento, il livello più basso da quando esiste l’euro. Un altro elemento considerato dai banchieri centrali è l’inflazione generata dall’incremento dei profitti aziendali, un tema che sta diventando sempre più rilevante perché in molti settori l’inflazione ha fornito la scusa per alzare i prezzi oltre l’effettivo aumento dei costi produttivi.

In ogni caso, l’inflazione core potrebbe essere più ostica da sconfiggere di quanto si pensi perché buona parte è stata generata dalle politiche fiscali messe in campo per contrastare la pandemia. In questo senso, alcuni economisti hanno evidenziato anche la relazione pericolosa tra Pnrr e inflazione.

L’Europa, infatti, si trova di fronte a un paradosso: sta mettendo in campo il suo “piano Marshall” che potrebbe generare a sua volta nuova inflazione costringendo la politica monetaria a diventare ancora più restrittiva. Praticamente un circolo vizioso.

È per questo che i tassi potrebbero restare alti più a lungo del previsto. Del resto, il Pnrr è stato concepito nel 2020 ma dopo, con la guerra in Ucraina e lo choc energetico, è cambiato tutto. I prezzi sono aumentati in modo incontrollato e per domarli è servita la stretta monetaria che, per essere efficace, non dovrebbe confrontarsi con una spesa fiscale ingente e prolungata nel tempo come quella prevista dal Piano europeo.

ùGli Stati Uniti hanno già sperimentato questa contraddizione tant’è che lì l’inflazione ha cominciato a galoppare prima che in Europa in seguito all’ingente pacchetto di aiuti deciso dall’amministrazione Trump e confermato da quella di Joe Biden.

Solo che c’è una differenza: negli Stati Uniti lo stimolo fiscale, seppure massiccio e a pioggia, ha avuto una durata limitata e quando i prezzi hanno cominciato a correre, la Federal Reserve è intervenuta in modo tempestivo e l’inflazione è stata domata in buona parte in tempi ragionevoli.

In Europa, invece, il piano di ripresa e resilienza, che ha una struttura molto più articolata, sta cominciando a dispiegare i suoi effetti proprio adesso che la Bce sta tentando di riportare l’inflazione sotto controllo. Il punto è che sempre una politica fiscale espansiva può generare inflazione, e per proprio per questo andrebbe coordinata con la politica monetaria, cosa che in tutto il mondo non è avvenuta per il rapido sovrapporsi di choc pandemico e choc energetico.

Ormai, però, i governi hanno ricevuto i fondi stanziati dal Recovery plan e devono spenderli. Ma non bisognerà sorprendersi se la Bce ci metterà più tempo per domare i prezzi poiché mentre la politica monetaria cerca di raffreddare l’economia, la spesa fiscale la surriscalda. È questa la ragione per cui potrebbero essere necessari più rialzi dei tassi del previsto e c’è chi teme che la Bce si troverà nelle condizioni di rincorrere l’aumento dei prezzi – dovuto a una crescente domanda per investimenti e consumi – per tutta la durata del Pnrr e oltre.

Si poteva evitare tutto questo? È opinione diffusa tra gli economisti che se l’aumento dei tassi fosse cominciato prima, tutto sarebbe stato più semplice da gestire.

Alla base, dunque, c’è un errore di valutazione della Bce sulla natura dell’inflazione stessa al quale adesso è chiamata a rimediare sforzandosi di bilanciare al massimo la politica monetaria, che vuol dire provocare una recessione che riporti l’inflazione sotto controllo ma che non faccia troppo male all’economia della zona euro. Una sfida epocale per Lagarde.