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Pioggia e neve non bastano contro la siccità: l’Italia sta diventando come l’Africa

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Di Serena Cammeo

Suona strano parlare di siccità dopo una perturbazione che per giorni ha scaricato piogge in tutta Italia, con precipitazioni copiose che hanno gonfiato sui massimi i livelli dei fiumi e dei grandi laghi del Nord. E hanno distribuito tanta neve sui rilievi, per la gioia degli sciatori a secco (sempre che le temperature elevate non facciano sciogliere velocemente la coltre). Ma è anche strano che le nevicate d’inverno oramai facciano notizia: a ben vedere, la stagione finisce tra pochi giorni eppure l’Italia nell’inverno 2023-2024 praticamente ancora non aveva visto la neve. Suscitano quasi ilarità i pannelli luminosi che lungo le autostrade ricordano agli automobilisti l’obbligo di dotazioni invernali da metà novembre a metà aprile….

Serve una prospettiva temporale ampia

Eppure c’è poco da ridere, il problema siccità resta, la resa dei conti è solo spostata più in là. L’ultimo avvertimento, rivolto soprattutto a chi ha il potere di decidere, arriva dall’associazione dei Consorzi di gestione del territorio e delle Acque irrigue (Anbi).

«I dati idrologici non devono essere analizzati nel contingente, ma in una prospettiva temporale ampia, perché la crisi climatica dimostra quanto repentinamente si passi dalla siccità all’alluvione»

afferma il presidente Francesco Vincenzi, contestando la diffusa percezione che le recenti e abbondanti piogge abbiano risolto l’insufficienza di risorse idriche. Se è innegabile il ristoro ai territori assetati del Mezzogiorno, colpiti da mesi di aridità estrema e anomalie termiche da primato, non hanno certo risolto gli scompensi. Gli invasi sono ai minimi, le falde acquifere soffrono.

Le alte temperature, nefasta conseguenza del cambiamento climatico, sembrano ormai la normalità. I dati di Copernicus, il servizio di monitoraggio dei cambiamenti climatici dell’Unione europea, non lasciano adito a dubbi. Il 2023 è risultato l’anno più caldo di sempre a livello globale, e il 2024 promette peggio: i primi due mesi sono risultati rispettivamente il gennaio e il febbraio più caldo mai registrati dal 1850. Da giugno scorso, siamo a nove mesi di fila che risultano i più caldi rispetto a quelli corrispondenti negli anni precedenti.

Allarme europeo per il Mediterraneo

L’European Drought Observatory (Edo) a fine febbraio ha denunciato l’impatto critico della siccità prolungata e delle temperature record nel Mediterraneo, con eventi prolungati che colpiscono l’Europa da tre anni e l’Africa settentrionale da sei. Mappe e foto sono eloquenti: dopo settimane di avvertimenti su specifiche aree dell’Europa meridionale – dalla Sicilia alla Sardegna alla Catalogna – l’allarme siccità nel Mediterraneo diventa una questione di rilevanza europea per il resto del 2024, si legge nello studio, dal momento che non solo le «temperature prolungate e superiori alla media, periodi caldi e scarse precipitazioni hanno portato a gravi condizioni di siccità» nell’Italia meridionale, nella Spagna meridionale, nell’isola di Malta, in Marocco, Algeria e Tunisia, ma le previsioni a brevissimo termine non migliorano con una primavera più calda, destando serie preoccupazioni per gli impatti sull’agricoltura, sugli ecosistemi, sulla disponibilità di acqua potabile e sulla produzione di energia.

Il 16,1% dell’Europa è ormai gravemente minacciato, avverte l’Edo. Ogni decimo di grado di riscaldamento globale aumenterà i rischi di siccità prolungata, motivo per cui servono le necessarie misure di adattamento immediate per la gestione dell’acqua e i settori dipendenti dall’acqua dolce, come l’agricoltura e la produzione di acqua potabile. Anche per evitare costi incalcolabili: secondo un report del Wwf, il valore economico annuale dell’acqua e degli ecosistemi d’acqua dolce nel mondo è stimato in 58mila miliardi di dollari, pari al 60% del Prodotto interno lordo globale.

Tornando all’Italia, l’Edo denuncia un’evidente sofferenza idrica in un’estesa area nella fascia adriatica centro-meridionale (dalla Romagna alla Puglia), nella quasi totalità della Basilicata, in buona parte della Calabria, lungo la costa livornese e laziale e soprattutto nelle due isole maggiori (in Sicilia, l’uso dell’acqua è razionato in oltre un centinaio di comuni con “zone rosse” tra le province di Catania, Caltanissetta ed Enna; la Sardegna ha già chiesto lo stato di calamità).

Commenta Massimo Gargano, direttore generale dell’Anbi :

«Sono immagini, che dovrebbero indurre una profonda riflessione sulle politiche per le risorse idriche avviate dalla Ue perché la crisi climatica sta sconvolgendo equilibri storici, spingendo il Sud del Continente verso scenari africani con crescenti territori a forte rischio desertificazione, cui si può rispondere con manutenzione, con innovazione e nuove infrastrutture, ma anche con adeguate politiche, che ne considerino la specificità territoriale»

Il bollettino dell’Anbi datato 14 marzo (e quindi successivo alle ultime perturbazioni) attesta come piogge e nevicate:

«Abbiano idricamente riequilibrato le regioni settentrionali e l’arco alpino. Le precipitazioni hanno dato ristoro ai territori assetati del Mezzogiorno, colpiti da mesi di aridità estrema e anomalie termiche da record, ma non hanno risolto gli scompensi. I livelli dei grandi laghi del Nord Italia hanno sì raggiunto i valori massimi, ma rilasciano grandi quantità d’acqua destinata al mare»

Dorothea, Emil e Fedra (i nomi assegnati alle ultime perturbazioni dal servizio meteo dell’Aeronautica militare) non bastano neanche lontanamente a risolvere uno stress idrico che si sta cronicizzando: secondo dati di Istat e Ispra elaborati da Greenpeace Italia, in 30 anni l’Italia ha perso il 13% della sua risorsa idrica. Vuol dire 19 miliardi di metri cubi di acqua, più o meno il volume dell’intero lago di Garda.

Spiega Ramona Magno, responsabile dell’Osservatorio siccità del CNR:

«Dalle analisi che abbiamo condotto risulta che in alcune zone di Sicilia e Sardegna, ma anche Calabria, Puglia e Basilicata, da almeno sei mesi le precipitazioni sono nettamente sotto la media. Il fatto di aver avuto temperature sempre elevate, in questo caso al di sopra della media, ha particolarmente inciso e aggravato lo stato delle riserve idriche superficiali, che soffrono, oltre al deficit di precipitazioni, l’elevata evapotraspirazione»

La riserva della neve scarseggia

Anche la scarsità di neve tra Alpi e Appennini lascia presagire un altro anno complicato. Lo Standardized precipitation index (Spi), uno degli indicatori maggiormente utilizzati in questo campo, conferma che non si tratta solo di un problema del Mezzogiorno. «Negli ultimi due anni alcune aree del Nord Italia registrano un deficit importante delle precipitazioni, ad esempio alcune zone del Piemonte e del Veneto”, spiega Magno. Se si controlla il bollettino idrologico del Piemonte, secondo l’indice di siccità sintetico di gennaio la regione è al limite della normalità; gli indici Spi evidenziano invece un problema. Le risorse superficiali stoccate a fine gennaio sono inferiori alla norma del 25%, scarto negativo dovuto soprattutto allo Snow water equivalent. Che tradotto in italiano è l’equivalente idrico nivale, ossia la quantità di acqua contenuta nel manto nevoso. Un parametro anch’esso molto importante: la neve è una riserva che ha capacità di rilascio graduale e garantisce l’approvvigionamento di acqua nei mesi in cui è più necessaria, primavera ed estate.

L’addio ai ghiacciai alpini

Monitorando le condizioni dello Snow water equivalent, la fondazione Cima documenta un deficit nazionale del 64% lungo la penisola. Spiega Francesco Avanzi, ricercatore dell’ambito idrologia e idraulica di Fondazione CIMA:

«Questa condizione va fatta risalire al tempo mite e secco, che ha aggravato un deficit preesistente: secondo le nostre stime, ha portato a una fusione anticipata dell’ordine di un miliardo di metri cubi di acqua in neve nella seconda metà di gennaio. Purtroppo, la scarsità di neve ha caratterizzato i nostri monti per tutti gli ultimi tre anni»

Se sulle Alpi, dalla Liguria al Friuli Venezia-Giulia, il deficit attuale della risorsa idrica nivale è del 26% rispetto alla media storica, sugli Appennini è di quasi il 90%.

Qualche giorno fa sono stati resi noti i risultati di Climada, uno dei tanti studi in materia, che è una sentenza di morte annunciata per l’Adamello, il più grande ghiacciaio italiano con i suoi 15 chilometri quadrati di superficie: «Scomparirà entro la fine del secolo per effetto del riscaldamento globale», afferma Roberto Ranzi, professore di Costruzioni idrauliche e marittime e Idrologia all’Università di Brescia. Forse già nel 2080. La Marmolada, altro osservato speciale, sta agonizzando a ritmo accelerato: è la metà della superficie che aveva nel 2000 e un quarto rispetto al 1900. I ghiacciai alpini «ormai li diamo per persi» sentenzia il climatologo Luca Mercalli.

Il monito del grande schermo

Molte volte il cinema è stato capace di anticipare trend e cambiamenti che poi sono diventati realtà, dai virus che sterminano le persone all’avvento dell’intelligenza artificiale. Speriamo che si sia sbagliato Paolo Virzì, che un paio di anni fa ha portato sugli schermi italiani Siccità, commedia amara sullo sfondo di un’ipotetica crisi climatica che lascia senz’acqua il Tevere: la città è invasa dalle blatte, si diffonde la malattia del sonno e si assiste impotenti alla desertificazione dell’Agro romano. La visione è comunque consigliata ai negazionisti del climate change.