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Le imprese via dalla Cina: ma dove? I vantaggi, i rischi e i Paesi che non ti aspetti

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Di Giorgio Marcata

Covid, maledetto Covid. La pandemia è stata per la Cina un’enorme fonte di guai: vuoi per le accuse di esserne la responsabile diretta o indiretta, visto che tutto è partito da Whuan (passaggio del virus dall’animale all’uomo o fuga più o meno accidentale da un laboratorio, la discussione è ancora aperta), vuoi perché per due anni ha costretto le autorità sanitarie a varare confinamenti per decine di milioni di persone e frenare le fabbriche. Ma soprattutto, perché ha mostrato al mondo quanto sia fragile il sistema di produzione internazionale del XXI secolo e di conseguenza anche l’intero modello di globalizzazione fondato su un’elevata frammentazione produttiva su scala globale.

Slowbalisation e Reshoring

Una conseguenza evidente, non solo per l’Italia ma per il mondo intero, è il riorientamento delle catene di fornitura verso Paesi terzi e verso il sistema produttivo nazionale, necessaria diversificazione del rischio per troppe aziende oggi ferme o a rilento per mancanza di componenti. Situazione che la crisi del Mar Rosso con gli attacchi Houthi alle navi mercantili non può che peggiorare. In termini concreti, si spostano le fabbriche, fenomeno noto come reshoring. Il Fondo monetario internazionale ha coniato il termine slowbalisation. Può trattarsi di un addio vero e proprio oppure di una diversificazione in nome della strategia China Plus One (Cina più un altro Paese), che ha il non secondario vantaggio di evitare eventuali ritorsioni delle autorità cinesi sulle vendite delle aziende in quel mercato.

Fatto sta che in molti hanno trasferito la produzione dalla Cina verso altre economie in sviluppo promettenti come Vietnam, Cambogia, India e soprattutto in Messico, alle porte del mercato degli Stati Uniti.

«A seguito del recente spostamento delle filiere legato alla strategia China Plus One, produzione e commercio sono stati al centro della scena»

spiega Bobby Esnard, economista di Capital Group, che per verificare pro e contro ha passato in rassegna quattro variabili: produzione e commercio, investimenti esteri, frizione finanziaria e restrizioni tecnologiche.

«Tuttavia, è altrettanto importante analizzare altri canali per avere la percezione di ciò che il futuro potrebbe riservare. Ciò che emerge è che, anche se lo spostamento della produzione potrebbe determinare un’evoluzione degli scambi commerciali, al momento nessun Paese può eguagliare l’ampiezza dei vantaggi offerti dalla Cina, nonostante le crescenti voci su alcuni contendenti»

Produzione e commercio

In uno studio, Esnard evidenzia un trend di lungo periodo verso scambi commerciali meno globali e più regionali, che si è acutizzato durante la pandemia. Ma – avverte – per tutti i potenziali beneficiari del trasferimento della produzione dalla Cina c’è un compromesso tra ampiezza, costi e vicinanza. «A prima vista, India e Messico sembrerebbero i destinatari più ovvi del crescente investimento nella strategia China Plus, poiché entrambi presentano fattori fondamentali per il successo della produzione, come manodopera a basso costo e popolazione giovane. Tuttavia, l’andamento dei salari e la forza della logistica evidenziano le sfumature di questi Paesi. Inizialmente l’India sembra offrire i più ampi vantaggi economici in tutti i settori e salari di produzione bassi – spiega l’economista – ma attualmente il salario per unità di valore aggiunto non è competitivo con la Cina (o con il Messico sotto questo aspetto) e risulta addirittura più alto di quello degli Stati Uniti». Allo stesso tempo,

«il Messico offre vantaggi in termini di costi e ha dalla sua la vicinanza agli Stati Uniti, ma attualmente il potenziale del Paese di diventare un hub manifatturiero mondiale è limitato al di fuori di settori selezionati. Inoltre, non dispone della solidità logistica/delle infrastrutture necessaria per competere su scala globale»

Nel breve-medio termine, si legge ancora nel report, le filiere semplicemente si allungheranno intorno alla Cina e i mercati emergenti beneficiari entreranno a farne parte:

«Durante tale processo di transizione, sarà opportuno monitorare Brasile, Indonesia, Turchia e Vietnam, per i significativi vantaggi offerti in molteplici settori. Uno dei principali benefici offerti dagli ultimi due Paesi è la vicinanza rispettivamente a Unione Europea e Cina»

Investimenti esteri

Anche i modelli di investimento devono ancora indicare un chiaro successore del Dragone. A livello globale, gli investimenti diretti esteri (Ide) in percentuale del Pil hanno raggiunto il picco intorno al periodo della crisi finanziaria, in Cina a inizio del Duemila con l’ingresso del Paese nella Wto, l’Organizzazione del Commercio Mondiale.

«India e Messico registrano trend positivi nelle classifiche sugli Ide – continua l’analisi – ma non (ancora) sufficienti da poterli considerare come attori strategici a lungo termine. Negli ultimi decenni l’India è stata sotto investita e, nonostante gli Ide stiano aumentando, gli investimenti netti sono sostanzialmente invariati rispetto alle dimensioni dell’economia»

Quanto al Messico, «il 50% degli investimenti esteri nel Paese è destinato a settori che producono beni di esportazione legati agli Stati Uniti».

Oltre a questi due Paesi, su questo fronte registrano una crescita interessante Repubblica Ceca, Malaysia, Filippine e Vietnam. «Abbiamo esaminato una serie di indicatori – spiega Esnard – per individuare i potenziali beneficiari: flusso di Ide annuo, CAGR (tasso annualizzato di crescita composto) del flusso e dello stock di Ide e quota degli Ide mondiali. Quei Paesi sono stati tra quelli che hanno superato almeno due selezioni in cui abbiamo potuto individuare anche potenziali vantaggi economici».

Restrizioni tecnologiche

Altra variabile da soppesare: Cina, Stati Uniti e Unione Europea hanno introdotto divieti su fornitori di tecnologia e produttori di chip per i timori legati alla sicurezza nazionale. «Tuttavia, i conflitti sui prodotti finiti e intermedi probabilmente si estenderanno anche ai fattori produttivi e ai settori che sono troppo difficili da trasferire».

La Cina e i suoi alleati hanno concentrato la produzione di molte materie prime e, di conseguenza, gli Stati Uniti dovranno rivolgersi altrove – Australia, Giappone e Corea – per acquistarle. «Attualmente la posizione di leadership della Cina come trasformatore di minerali critici è relativamente indiscussa – sottolinea ancora il report di Capital Group – e il suo dominio sulle forniture straniere è aumentato: nel contempo, mentre gli Ide cinesi si sono concentrati in larga misura su minerali e metalli, gli Usa non hanno investito in questo settore negli ultimi anni». Per come stanno le cose non esiste una “prossima Cina”: «In realtà, le alternative di produzione varieranno in base al settore e al mercato finale, e si tratterà più che altro di un China Plus One, Plus Two, Plus Three».

Una poltrona per due

Guardando al futuro, l’India ha un potenziale a lungo termine per diventare una vera alternativa, «poiché offre vantaggi economici estremamente ampi in tutti i settori. È già in grado di offrire salari più bassi della Cina e un’ampia forza lavoro (oltre 200mila lavoratori) nei settori automobilistico, elettronica ed elettrodomestici, prodotti chimici, macchinari, metalli, minerali, gomma e plastica e tessile. Per contro, servirà molto tempo perché possa superare decenni di sotto-investimenti e incrementare il suo valore aggiunto in questi settori».

Più a breve termine, diversi Paesi sono ben posizionati in settori specifici per trarre beneficio dall’allungamento delle filiere Usa/Cina. A cominciare dal Messico:

«Grazie ai vantaggi offerti nei settori auto/elettronica e alla vicinanza agli Stati Uniti, anche se non ha le infrastrutture necessarie per competere a livello globale. Nell’indice Logistics Performance 2023 della Banca Mondiale, il Messico è al 66° posto su 139 Paesi, contro il 48° dell’India, il 51° del Vietnam e il 52° del Brasile»