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Ecco quanto ha pesato (e peserà) la recessione tedesca sul Pil italiano

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Di Serena Cammeo

La notizia cattiva è che la recessione che sta vivendo la Germania – la seconda negli anni recenti, dopo quella del 2020 – ha inevitabilmente inciso sull’economia italiana, com’era lecito attendersi visto che è il nostro principale partner commerciale. La notizia buona è che l’impatto è stato meno pesante di quello che si poteva temere. La frenata della (ex) locomotiva europea lo scorso anno (-0,3%) «ha avuto, tramite l’export, un effetto sulla crescita italiana stimato in due decimi di punto di Pil. Ma forse ha inciso meno di quanto sarebbe successo in passato». Senza una recessione tedesca «l’economia italiana sarebbe cresciuta a 1,2%» spiega Monica Pratesi, direttrice del Dipartimento per la produzione statistica dell’Istat.

L’attenuazione della dipendenza dagli input provenienti dalla Germania è una delle indicazioni più interessanti che emerge dal XII rapporto sulla competitività dei settori produttivi, curato dall’Istituto nazionale di statistica. Lo studio esamina diverse variabili e ne quantifica l’impatto sul made in Italy, in uno scenario economico internazionale caratterizzato da una forte incertezza, alimentata da tensioni geopolitiche e dagli effetti restrittivi della politica monetaria. La conseguenza è un rallentamento della crescita globale, meno accentuato in Usa e Cina, più evidente in Europa.

Nel 2023, secondo il modello Istat, il rallentamento del commercio mondiale avrebbe ridotto di 3,7 punti percentuali la crescita dell’export italiano (in volume), di 1,5 punti quella dell’import e 0,8 punti quella del Pil. La Germania avrebbe pesato da sola per 1 punto di export, 0,3 punti di import e 0,2 punti di Pil. E se nel periodo pandemico la nostra dipendenza dai tedeschi (più ampia della loro da noi) si è ridotta nel periodo pre-pandemico, è aumentata in compenso quella nei confronti degli altri Paesi, tra cui Francia, Usa e Spagna.

Più colpite le medie imprese

Resta il fatto che la salute dell’economia di Berlino ha esercitato una pressione notevole sull’export italiano, incidendo negativamente sulla produzione di diversi settori manifatturieri. Il modello macroeconomico dell’Istat simula le conseguenze che ha avuto sulle  nostre imprese la recessione: numeri che tra parentesi potrebbero tornare utili per capire cosa ci aspetta quest’anno, visto che tutti gli istituti di ricerca tedeschi concordano su una nuova crescita negativa (viene stimato un altro -0,3% a fine 2024).

Le simulazioni parlano chiaro per il made in Italy: riduzioni di valore aggiunto più accentuate per la manifattura (-0,6%, ossia -1,4 miliardi di euro), meno per l’energia (-0,3%, -124 milioni), irrilevanti per costruzioni e servizi di mercato (-0,1%, rispettivamente -23 e 800 milioni di credito). Effetti negativi evidenti si riscontrano per metallurgia (-2,4%), apparecchi elettrici e chimica (-1,2% per entrambi). Lo shock tedesco avrebbe colpito soprattutto le nostre medie imprese (-0,4% di valore aggiunto) rispetto alle grandi e piccole (-0,2% per entrambe). Le unità con meno di 10 addetti hanno subito un effetto ancora più attenuato (-0,1%), principalmente attraverso meccanismi di trasmissione di tipo indiretto. Interessate anche le multinazionali a controllo italiano ed estero (rispettivamente -0,3 e -0,2%).

Tra le unità di media dimensione, più colpite dalla recessione tedesca, i maggiori effetti negativi si riscontrano nella metallurgia (-5,3% di valore aggiunto), nella farmaceutica (-2,2%) e nella chimica (-1,9%).

Il costo del denaro: 800mila aziende a rischio

Il rapporto si focalizza su diverse altre mine per la competitività. In primis l’elevato costo del denaro. Per i tassi di interesse, dopo due anni di crescita esponenziale, potrebbe essere alle porte la stagione dei tagli, vista la discesa dell’inflazione. Ma le banche centrali tentennano in attesa di dati più confortanti. In caso di mantenimento a lungo degli attuali tassi, segnala l’Istat, almeno un quarto delle imprese italiane – soprattutto nel terziario – andrebbe in sofferenza. La politica monetaria restrittiva, oltre ad avere effetti antinflazionistici, ha inciso sulle condizioni di finanziamento delle aziende: «A dicembre 2023, nella manifattura il differenziale tra la quota di unità che segnalavano un miglioramento nei rapporti con le banche e quella di chi lamentava condizioni più restrittive era negativo, in misura cinque volte superiore a quella di dicembre 2021. Il peggioramento ha riguardato tutti, ma in particolare le unità piccole e medie».

La maggiore onerosità dei fidi ha portato anche a un aumento dei casi di “domanda scoraggiata”, quando l’impresa «recede dalla richiesta di finanziamento a causa dell’imposizione di condizioni meno favorevoli: a fine 2023 lo scoraggiamento spiegava oltre la metà dei casi di mancato ottenimento del credito» sottolinea ancora l’Istat.

L’innalzamento dei tassi di interesse ha inoltre avuto conseguenze anche sui bilanci aziendali, compromettendo il processo di consolidamento registrato negli anni 2011-2022. Nel Rapporto un “Indicatore di sostenibilità economico-finanziaria” delle imprese divide le società di capitali italiane in quattro classi: in salute, fragili, a rischio e fortemente a rischio. Si stima che fino a un quarto delle imprese che nel 2022 presentavano una redditività sostenibile potrebbero essere passate da uno status di “in salute” o “fragile” a una situazione “a rischio” o “fortemente a rischio”: si parla di 800mila imprese.

Cresce la dimensione media delle imprese

La violenza della recessione da Covid, inoltre, ha avuto conseguenze pesanti sulla struttura del sistema produttivo, nonché sulle scelte strategiche delle imprese, chiamate a riorganizzare l’utilizzo del lavoro, gli spazi produttivi, le modalità di produzione e vendita, le reti di fornitura e distribuzione. I dati mostrano che già nel 2022 la ripresa dell’attività economica ha consentito, in tutti i macrosettori, il superamento dei livelli pre-Covid in termini di numero di imprese, occupati e valore aggiunto, con variazioni più ampie nel terziario – che più aveva risentito della crisi – e nelle costruzioni, grazie ai consistenti sostegni pubblici.

«Nell’industria, invece, è proseguito il processo di ridimensionamento del numero di unità – prosegue il rapporto – a fronte dell’aumento di occupazione e valore aggiunto che ha favorito, nell’arco di un decennio, una ricomposizione delle risorse a beneficio di imprese più grandi e più produttive. Tra il 2019 e il 2022 in tutti i comparti si è osservato un aumento della dimensione media d’impresa».

Le imprese digitalizzate sono più dinamiche

La pandemia e la crisi energetica hanno portato mutamenti anche nelle strategie aziendali. Il sistema appare “dualistico”: da un lato, quasi il 60% delle imprese mostra un grado di dinamismo “medio-basso”, pur con un peso economico limitato in termini di valore aggiunto (meno di un quarto) e di addetti (meno di un terzo); dall’altro lato, le imprese dinamiche sono molto meno numerose, ma economicamente più rilevanti, poiché generano oltre la metà del valore aggiunto. Le transizioni verso livelli di dinamismo più alti «sono state favorite soprattutto da investimenti di crescente intensità nelle forme meno standard della transizione digitale (in ordine di importanza: Big Data, machine-to-machine, robotica avanzata) e in forme avanzate di internazionalizzazione dell’attività».

Spicca la relazione diretta tra dimensione d’impresa e grado di dinamismo, ma questi strumenti «sono accessibili anche alle imprese di minore dimensione; questo ha consentito a migliaia di piccole unità di raggiungere livelli di produttività del lavoro superiori a quelli di imprese grandi ma a dinamismo basso o medio-basso. Gli investimenti in tecnologia, in particolare digitale, appaiono quindi tra i fattori centrali per uno spostamento verso un maggiore dinamismo e una maggiore performance».

Le 28 filiere e le 8 di rilevanza sistemica

L’estensione e l’intensità degli shock recenti hanno poi messo in evidenza «l’importanza di comprendere i legami tra le attività economiche» sottolinea ancora l’Istat. Negli ultimi anni, anche sotto la spinta degli orientamenti comunitari in materia di mercato unico, «i provvedimenti di policy tendono a superare la dimensione settoriale e a rivolgersi più generalmente alle filiere produttive, intese come l’insieme delle attività che compongono l’intera catena del valore di un bene o servizio, dalla progettazione alla vendita».

I risultati del secondo Censimento permanente sulle imprese consentono di fotografare e analizzare ventotto specifiche filiere in Italia: nel 2022 quelle che coinvolgevano il maggior numero di unità erano agroalimentare, edilizia, turismo e mezzi di trasporto su gomma. Si tratta anche delle filiere le cui imprese rappresentavano quote più elevate di valore aggiunto e di occupazione. Tra tutte, in particolare, emergono otto filiere a “elevata sistemicità”, quelle che attivano la maggiore quota di valore aggiunto all’interno del sistema economico: agroalimentare, mezzi di trasporto su gomma, energia, edilizia, abbigliamento, macchine industriali non dedicate, farmaceutica e cura di persone e animali, sanità.

Il ruolo delle catene del valore

Anche le strategie di internazionalizzazione evidenziano i cambiamenti nelle scelte aziendali, dopo che la pandemia ha messo a nudo la fragilità degli scambi basati sulla frammentazione delle catene produttive. Il Rapporto analizza il coinvolgimento delle imprese nelle catene globali del valore (GVC): «Nel 2022 nel sistema produttivo italiano prevalevano ancora modalità di internazionalizzazione meno evolute e meno produttive (aziende solo importatrici o solo esportatrici). Le forme più evolute (imprese “global”, che operano in almeno cinque aree extra-UE, e “multinazionali”) rappresentavano appena un quarto del totale delle imprese».

Tuttavia da queste classi, «che nella quasi totalità comportavano una partecipazione alle GVC, dipendeva in larghissima misura la performance complessiva della manifattura internazionalizzata (oltre tre quarti del valore aggiunto, il 90% dell’export e il 70% dell’occupazione). Tra il 2019 e il 2021 – spiegano i ricercatori dell’Istat – più di due terzi delle unità hanno mantenuto inalterata la propria forma di partecipazione agli scambi internazionali; tra le rimanenti, sono prevalsi lievemente gli spostamenti netti verso forme più complesse e gli ingressi nelle GVC».

Aumenta il peso della farmaceutica

Rispetto al 2019, la composizione settoriale dell’export italiano in volume non ha subito mutamenti di rilievo. La farmaceutica ha accresciuto il proprio peso sul totale (+1,3 punti percentuali), posizionandosi al terzo posto nel 2023 dopo macchinari (-1,3) e automotive (-0,4). In flessione anche il peso di alcune attività trainanti del Made in Italy, come tessile-abbigliamento e pelletteria. Oltre la metà dell’export manifatturiero è stata destinata a sette Paesi: Germania, Francia, Usa, Spagna, Regno Unito, Russia e Cina. Gli Stati Uniti, che accrescono il proprio peso sul totale, sono il primo mercato di sbocco per le bevande (assorbono il 20,9% dell’export di questo settore); la Germania per gli autoveicoli (18,5%); la Francia per la moda (13,3%).