Scenari

C’era una volta la Fruit Valley

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di Giorgio Costa

«Prima il terremoto nel 2012 tra Bologna, Modena e Ferrara; poi la prima regione ad essere colpita dal Covid. Adesso l’alluvione in Romagna. Ci mancano i marziani e poi abbiamo visto tutto».

Stefano Bonaccini, il presidente della Regione Emilia-Romagna, rimbalza da una trasmissione televisiva all’incontro in prefettura a Ravenna con la premier Giorgia Meloni ma si commuove a ricordare tutto quel che lui, e l’Emilia-Romagna, hanno dovuto subire in questi lunghissimi anni che l’hanno vista – non certo unica ma ahimé tra le prime – al centro della cronaca per eventi naturali estremi.

E se il terremoto di 11 anni fa ha prodotto danni per oltre 12 miliardi, l’alluvione di questi giorni si stima che difficilmente si fermerà sotto quota 8. Ma sono solo stime  e sono solo danni materiali: perché quelli umani non c’è indicatore che li calcoli, se non lo sguardo vuoto di giovani e anziani che hanno perso in mezza giornata tutto quel che avevano. E non si tratta solo di “roba” di verghiana memoria; si tratta dei ricordi di una vita, di tavoli e poltrone che li avevano accolti per decenni e che ora se ne stanno ammucchiati sulle strade in attesa che un camion di Hera, l’azienda che cura la raccolta dei rifiuti urbani, se li porti via.

E c’è voluta un’ordinanza della stessa Regione Emilia-Romagna per consentire la raccolta di quelle migliaia di tonnellate, in deroga alle rigide norme della differenziata. Lì c’è di tutto, ma soprattutto ricordi, e occorre fare in fretta a portare via, a sottrarre dalla vista di chi ha perso tanto (se non tutto), e ora quel tutto è solo un ostacolo alla ripulitura delle strade. Perché bisogna davvero fare in fretta, prima che il sole di questi giorni secchi il fango e occorra faticare il doppio per togliere tutto. Anche se paradossalmente le allerta-meteo non sono ancora finite.

Ravenna si risveglia sotto il sole dopo notti da incubo, avendo visto quello che era successo nelle campagne e temendo che l’onda lunga dei canali – nati per bonificare le campagne e per irrigare, ma trasformatisi in una gigantesca minaccia – potesse riversarsi in città. Una città che era in passato palude e rischia continuamente di ridiventarlo, in un contesto in cui i fiumi hanno argini creati dall’uomo, dagli scarriolanti negli ultimi due secoli, e in cui tanto è basso il piano di campagna che i pesci nuotano nei fiumi a un livello più alto di quello a cui volano gli uccelli.

Un esercito di ruspe, camion e idrovore erano le armi a disposizione per combattere quella battaglia che Forlì, Cesena, Faenza, Lugo e tanti territori di campagna avevano già perso: ma in quei casi erano stati i fiumi a rompere o superare gli argini, Ravenna doveva non solo guardarsi dai fiumi ma anche dai canali. L’ultimo baluardo è stato una montagna di terra alta due metri, tirata su notte tempo, per fermare l’acqua in una zona commerciale a ovest del centro; negozi e terreni già invasi in tutta la periferia, l’onda poteva arrivare a un punto di non ritorno dove una leggere discesa del piano di campagna l’avrebbe portata in pochi minuti nel centro cittadino, patrimonio Unesco. A mezzanotte tra giovedì e venerdì scorso eravamo in centinaia assiepati sul ponte a cercare di capire se l’acqua ce l’avrebbe fatta o meno a vincere la sua guerra con il rumore sordo dei flutti che foravano l’asfalto.

A quel punto, dopo averle provate tutte, ed essere anche riusciti anche a invertire il corso del Canale Emiliano Romagnolo e a portare nel Po l’acqua che normalmente ne esce per irrigare la campagna, non rimaneva che una strada. Tagliare l’argine di un canale pericolosissimo (il canale Magni) e fare defluire l’acqua in un terreno agricolo a nord della città. Il prefetto di Ravenna, Castrese De Rosa, chiama il proprietario di quei terreni, che è la Cooperativa agricola braccianti del territorio Ravennate (Cab Terra) e direttore e presidente, rispettivamente Lino Bacchilega e Fabrizio Galavotti, non hanno indugi: «Se serve a salvare la città, andiamo avanti». E così, dopo il taglio dell’argine, milioni di metri cubi d’acqua si riversano sui 200 ettari della Cab. Il prezzo del sacrificio? Per i raccolti che se ne sono andati in media, 2mila euro a ettaro per un totale che supera abbondantemente 1,3 milioni, senza considerare i costi per risistemare i terreni su cui ancora insiste un metro d’acqua. E così quella coop nata nel 1883 per strappare al mare e alla malaria decine di ettari di territorio, ha onorato 140 anni di storia con un gesto dal valore inestimabile. Di fatto ha salvato la città di Ravenna.

Ad oggi il paesaggio e la società romagnola sono sconvolti; gli sfollati sono oltre 20mila, 43 i Comuni coinvolti dagli allagamenti e, sul versante del dissesto idrogeologico, risultano attive circa 305 le frane concentrate in 54 comuni. Per quanto riguarda la viabilità, sono 622 le strade chiuse, di cui 225 inagibili parzialmente e 397 totalmente. Al lavoro per alleviare i disagi ci sono quasi 3mila persone (dalla protezione civile ai vigili del fuoco passando dai Carabinieri) e 1.700 volontari sono al lavoro in Emilia-Romagna, cui si sono aggiunte migliaia di ragazzi venuti a spalare il fango da ogni parte d’Italia.

Ancora oggi le strade rialzate rispetto al piano di campagna appaiono dighe in mezzo a un’immenso lago d’acqua, in cui le piantine di grano sembrano riso in un ambiente asiatico. E invece sono l’esile bandiera di un settore, quello agricolo, messo letteralmente in ginocchio. Secondo le stime di Coldiretti, l’alluvione ha devastato oltre 5mila aziende agricole e allevamenti in una delle aree più agricole del Paese, con una produzione lorda vendibile della Romagna pari a circa 1,5 miliardi di euro all’anno, che si moltiplica lungo la filiera grazie a un indotto di avanguardia, privato e cooperativo, nella trasformazione e distribuzione alimentare che è stato fortemente compromesso.

Nelle aree colpite, secondo la Coldiretti regionale, sono a rischio nell’intera filiera almeno 50mila posti di lavoro tra agricoltori e lavoratori dipendenti nelle campagne, nelle industrie e nelle cooperative di lavorazione e trasformazione. E se dalla pianura si sale alla collina, sono oltre mille le aziende agricole che rischiano di scomparire con i terreni segnati da frane e smottamenti. Ma a preoccupare – sottolinea Coldiretti regionale – sono anche i danni alle infrastrutture con strade interrotte e ponti abbattuti, con difficoltà a garantire acqua e cibo agli animali isolati per le interruzioni nel sistema viario.

L’alluvione ha invaso i campi con la perdita di almeno 400 milioni di chili di grano nei terreni allagati dell’Emilia-Romagna, dove si ottiene circa un terzo del grano tenero nazionale, in un contesto internazionale particolarmente difficile. Ma l’esondazione ha sommerso – continua Coldiretti – anche i frutteti “soffocando” le radici degli alberi fino a farle marcire, con la necessità di espiantare e poi reimpiantare almeno 15 milioni di piante tra pesche, nettarine, kiwi, albicocche, pere, susine, mele, cachi e ciliegie. Ma preoccupante è la situazione anche per i 250mila bovini, maiali, pecore e capre allevati nelle stalle della Romagna alluvionata dove si contano anche circa 400 allevamenti avicoli, tra polli, galline da uova e tacchini: secondo la Coldiretti regionale si evidenziano purtroppo numerose situazioni di criticità con migliaia di animali morti affogati.

La stima di Confagricoltura Emilia Romagna è di danni fino a 6mila euro a ettaro per i seminativi (grano, orzo, mais, soia, girasole, erba medica, colture orticole e sementiere) e 32mila euro a ettaro per frutteti, vigneti e oliveti, inclusi raccolti persi e costo dei reimpianti. «Solo nella Bassa Romagna, in provincia di Ravenna, il conto agricolo delle inondazioni supera i 200 milioni di euro. Sono finiti sott’acqua e sono ancora coperti da uno strato di limo, argilla e sabbia, circa 1.800 ettari a Conselice e 1.500 ettari a Villanova e Boncellino di Bagnacavallo» spiega Marcello Bonvicini, presidente di Confagricoltura Emilia-Romagna.

Ma se l’agricoltura piange di certo non ridono industria e artigianato. «La cosa migliore – spiega Davide Servadei, faentino, presidente regionale di Confartigianato che ha visto sommersa dall’acqua la sua azienda ceramica – è quella di dare immediatamente liquidità alle imprese seguendo una strada già imboccata per i giovani: niente interessi e capitali garantiti dallo Stato. Ma subito; solo così potremo pensare di rimettere in moto un sistema produttivo che è letteralmente in ginocchio». Danni «incalcolabili» anche per il presidente di Confindustria Romagna Roberto Bozzi, che deve fare i conti con centinaia di imprese allagate nelle tre province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini.