Scenari

Crisi bancarie inevitabili, ma servono regole nuove

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di Giuseppe Russo (Direttore del Centro Einaudi di Torino)

Dopo il salvataggio d’urgenza della First Republic Bank e quello probabile del Credit Suisse, la crisi bancaria non si può più liquidare come un granello di sabbia nell’ingranaggio ben oliato del capitalismo. C’è qualcosa di più e occorrerà rifletterci.

La prima questione è smarcare la domanda. Le crisi bancarie si possono evitare? Hanno ragione quelli che le imputano al capitalismo, o no? Se il sistema economico fosse in stato stazionario e sempre in equilibrio, o se crescesse a un tasso costante (una specie di età dell’oro), le crisi bancarie non esisterebbero. Ogni banca calcolerebbe la percentuale di perdite sugli attivi e la sommerebbe alle competenze richieste ai clienti. Le crisi bancarie invece avvengono non solo perché qualcuno (i manager?) può aver sbagliato i conti sui rischi dei propri attivi, ma perché l’economia si muove ciclicamente. Di cicli ce ne sono di più di due tipi. Ci sono i cicli reali, successioni di fasi di espansione e di recessione, che fanno variare nel tempo la qualità degli attivi delle banche, perché durante le crisi, specie se inattese, alcuni banchieri possono non avere il tempo di cambiare la qualità degli investimenti e la loro quantità, per via dei contratti di lungo termine e perché il prezzo degli investimenti deteriorati di solito precipita velocemente. Poi ci sono i cicli determinati dalla moneta, o se si vuole dal costo del suo uso, il tasso di interesse. Esso è manovrato dalle banche centrali in funzioni di obiettivi macroeconomici e la qualità degli investimenti delle banche dipende sempre dal costo del credito praticato ai clienti.

Noi siamo esattamente in questo caso. In altri termini, in un’economia che non si liberi dalla ciclicità, la qualità degli attivi delle banche varia anche violentemente e ad ogni onda qualche banca entra in crisi. Sulla eliminabilità dei cicli ci sono diverse opinioni. Per quanto ci assicurano la teoria e l’esperienza, i cicli reali sono il frutto della comparsa delle innovazioni radicali, che non solo soddisfano più e meglio i bisogni degli uomini, ma quando compaiono accelerano l’ammortamento del vecchio capitale, rendendolo obsoleto e mandando in fumo il valore del capitale investito (e di quello preso a prestito per investire). Non solo questi cicli persisteranno perché la natura umana tende alle novità, ma diventeranno più frequenti nella storia. Non passano più 40 anni tra due rivoluzioni tecnologiche, ne bastano 20 o meno, perché l’accumulazione di conoscenza cresce in ragione geometrica, a un tasso maggiore della popolazione e di tutte le altre risorse. I cicli monetari sono invece connaturati all’esercizio della politica monetaria, di cui non possiamo fare a meno. Le crisi bancarie non possono essere fatte scomparire dall’economia (capitalistica di mercato) perché ne fanno parte. Sorge naturale una seconda questione. Se non possono essere eliminate, la regolamentazione bancaria ha fatto a sufficienza per ridurle al minimo? Qui il discorso si fa interessante.

In linea di massima ci sono due modi per regolare l’attività bancaria. Il primo è imporre un tetto massimo all’attività bancaria (cosa che in Italia prevalse e resistette fino al 1988). Ma tetti all’attività bancaria furono in vigore in Regno Unito (fino al 1971), in Francia (fino al 1987), in Belgio (fino al 1978). Insomma, era il vecchio modo di regolare le banche. Vincolare la produzione di crediti impediva però alle banche di essere imprese a tutti gli effetti, perché non potevano crescere. In quel mondo molte banche erano pubbliche e poco efficienti mentre le banche private potevano essere indotte dal massimale a crescere assicurandosi i crediti più lucrosi, nonché più rischiosi, quelli che quando arriva la recessione o l’inflazione mandano la banca in crisi.

Per questo si cambiò. Ed ecco il secondo: le banche dalla fine degli anni ‘80 non sono più limitate negli attivi, essendo diventate imprese che concorrono nel mercato finanziario e attraggono investitori nel loro capitale (con il che, gli Stati si sono liberati delle banche, o quasi). Nello stesso tempo, la politica monetaria si esercita attraverso il tasso di interesse delle banche centrali. Dal canto loro, le banche devono osservare una percentuale di capitale minimo sugli investimenti – crediti e altro – (si chiama CET1) che tiene conto delle perdite attese e in qualche modo anche di quelle inattese. Questo tipo di regolamentazione è piuttosto diffusa nel mondo (negli Usa come in Europa), salvo che nell’Ue ha una applicazione più severa per i controlli di supervisione e i periodici stress test. Per ora, infatti, le crisi bancarie sono emerse in sistemi (Usa e svizzero) diversi da quello severo europeo.

Il nuovo sistema, ben applicato, è valido, ma bisogna considerare che ha rischi collaterali. Il primo è che se la manovra di politica monetaria agisce attraverso il tasso di interesse, possono aumentare le recessioni da rialzo dei tassi (quelle cosiddette tecniche). In secondo luogo, gli accantonamenti delle banche per le perdite attese sono frutto di un calcolo abbastanza affidabile (aggiustabile ovviamente in funzione della prudenza di gestione), ma gli accantonamenti per le perdite inattese sono un grosso punto interrogativo, perché hanno a che fare con le fat tails degli eventi finanziari estremi. Per quanto rari, essi sono eventi che succedono e potenzialmente catastrofici. La disciplina bancaria lavora a questi in termini di prevenzione e non in termine di mitigazione. Per esempio, dopo Lehman la concentrazione degli attivi in un settore solo, come quello immobiliare ultraciclico, è penalizzata. Ma di mine che stanno sotto il pelo dell’acqua nell’economia globale ce ne sono parecchie ed è veramente difficile considerarle tutte. Tanto per fare un esempio: le guerre nel mondo sono attualmente 59, e in metà dei casi nessuna di queste esisteva due anni fa. Quindi, oltre al fatto che i cicli sono ineliminabili, ci sono i rischi finanziari inattesi, e in somma a tutto ci sono gli errori di management. Tre argomenti per dire che le crisi bancarie non sono scandalose (non tutte), possono accadere.

C’è infine una terza questione, ossia quale potrebbe essere lo scenario dei tassi di interesse che i banchieri dovrebbero considerare nei piani dei prossimi anni.

Pur riconoscendo gli errori gestionali, le tre ultime crisi (SVB, Credit Suisse e First Republic) sono state innescate dalla velocità di rialzo dei tassi di interesse. Doppia rispetto ai rialzi del passato, che non ha dato tempo alle banche con gli attivi più deteriorabili né di alleggerirsi, né di riprezzare i rischi, né di trovare nuovo capitale. I tentativi falliti di ricapitalizzazione di SVB e Credit Suisse sono stati tardivi. Quando una banca è già con in piede nella crisi, non solo non trova capitali sul mercato, ma quando è manifesto che quei capitali non ci sono, la crisi si avvita senza fine mentre i clienti escono. C’è poco da fare.

Allora, quale è il futuro dei tassi di interesse, visto che, chi più chi meno, tutti i banchieri hanno presidi di capitale calcolati con modelli basati sulla sensibilità degli attivi a variazioni storiche dei tassi avvenuti negli ultimi decenni? Proviamo a ragionare.

I tassi nominali sono la somma del tasso di inflazione e del tasso di interesse reale. Si tratta delle due linee del grafico in figura. Riguarda gli Stati Uniti. I tassi di interessi usati sono quelli del tasso sui prime loan (quindi è il più basso che si ha per il credito ai privati), e il tasso di inflazione riguarda la variazione annuale dei prezzi (su 12 mesi) nelle città americane. Prendiamo gli Usa perché per l’Europa non avremmo una serie lunga 50 anni, visto che l’Euro è nato solo nel 99. Dal grafico si vede che dagli anni ‘80 in poi l’inflazione ha abbandonato la fascia di oscillazione del decennio precedente (5-10%) per scendere tra lo zero e il 5%, dove la Fed l’ha tenuta con relativamente poca fatica. Infatti dal 1980 fino alla vigilia della pandemia l’occidente ha importato disinflazione comprando prodotti asiatici con una ragione di scambio favorevole. Questo era basato sull’abbondanza di lavoro asiatico a basso costo. La nuova inflazione è differente. Le ragioni di scambio sono flessibili (il renmimbi fluttua dal 2005) e il costo del lavoro dei Paesi emergenti è salito. Inoltre, nei Paesi sviluppati i boomers che vanno in pensione non potranno essere sostituiti tutti, il che sta caricando la molla di un’inflazione da salari che potrebbe dimostrarsi strutturale. La domanda (quella che faceva salire i prezzi negli anni Settanta) non c’entra più, questa è inflazione da offerta e certi fattori come gli ingegneri e i medici sono estremamente rigidi. Per fare un ingegnere o un medico servono da 18 a 22 anni di studi.

Quanto alla seconda componente dei tassi di interesse nominali, ossia il tasso di interesse reale, è il prezzo dell’uso del risparmio, che dipende da quanto risparmio si forma e da quanti lo chiedono, ossia dalla domanda di investimenti. Dall’inizio degli anni Ottanta esso è sempre sceso, perché a una certa stabilità del risparmio complessivo sul Pil ha corrisposto una scarsità di investimenti dovuta alla produttività del capitale che ha continuato a crescere in progressione geometrica (mentre quella del lavoro è stata stabile o cresce linearmente), cui si è aggiunta la scarsità di investimenti pubblici, come nelle infrastrutture. Questo è proprio quello che cambierà (più in Europa che negli Usa) nei prossimi anni. L’offerta di risparmio si ridurrà (almeno come dinamica) perché i boomers disinvestiranno durante la loro pensione.

La domanda di investimenti invece è destinata ad impennarsi stabilmente in ragione della trasformazione digitale, della decarbonizzazione e trasformazione green, degli investimenti infrastrutturali rimasti indietro, degli investimenti in sanità dovuti a una popolazione che invecchia e, in ultimo, degli investimenti nella difesa, che dovranno raggiungere il 2% del Pil. In altri termini, è possibile che nel 2023 si sia passati da un mondo di 50 anni di inflazione, tassi di interesse reali e quindi nominali bassi, a un “nuovo mondo” nel quale l’inflazione resisterà parecchio a scendere sotto il 4% e forse non tornerà mai più al 2%, mentre i tassi di interesse reali saranno più alti (magari intorno al 4% per la qualità di credito più alta), il che porterebbe i tassi nominali normali, a inflazione sotto controllo, in una zona intorno all’8%.

In questo paradigma si svolgerà il futuro dell’attività bancaria e non si può pensare che questo non impatti sulla qualità degli attivi delle banche e, quindi, dei presidi necessari ad evitare le crisi bancarie. In pandemia dividendi e buyback vennero per esempio sospesi dalla Bce. Fuori pandemia non accadrà, ma ci saranno banche più abili e meno abili a gestire il cambio di ambiente economico di riferimento.