Scenari

Libano addio: da Svizzera del Medioriente a nuova frontiera per le migrazioni verso l’Europa

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di Chiara Giannini

Shama (Libano). La crisi economica che dal 2019 ha colpito il Libano rischia di portarci in casa altre decine di migliaia di migranti. La popolazione è alla fame, con uno stipendio medio mensile dell’equivalente in lire libanesi di 20 euro. Un pieno di benzina costa la stessa cifra, mentre il governo ha revocato i sussidi su tutti i farmaci, innescando una reazione a catena che sta portando molta gente a morire di fame e di malattie.

La conferma arriva dalla sede di Tyro della Croce Rossa internazionale, dove ci spiegano che «ogni giorno arrivano decine di donne in cerca di aiuto. Chiedono per lo più farmaci e generi alimentari, ma non riusciamo ad accogliere tutte le richieste», confessano.

La perdita di valore della lira sta portando al caos. Per un dollaro oggi servono 140mila lire libanesi, nel 2019 ne occorrevano 1.500. Questo ha comportato anche la chiusura di tutte le scuole. «La gente – spiega un’insegnante del locale Mosan center – non ha i soldi per mettere il carburante e portare i figli in classe. Noi professori facciamo il possibile, cercando di raggiungere a piedi il posto di lavoro, ma poi nessuno arriva. Qui si soffre veramente la fame». In molti gridano alla necessità di un governo stabile. Anche il premier ad interim libanese Najib Mikati, nei giorni scorsi a Roma per una visita istituzionale, ha lanciato l’allarme per possibili partenze di migranti anche dal Libano, chiedendo alla premier Giorgia Meloni che l’Europa fermi i trafficanti di esseri umani.

Il portavoce del mufti della comunità islamica di Tyro, Rabih Kobeissi, ci racconta che «i libanesi vorrebbero rimanere nella loro terra, ma la situazione economica li sta forzando a tentare di uscire. Molta gente cerca di partire, andare all’estero e fare soldi per poi tornare. Se trovano un lavoro vanno in Africa e nei Paesi del Golfo. Se vogliono una vita buona vanno in Europa». E lascia trasparire la sottile ironia legata al fatto che i Paesi del vecchio continente accolgono chiunque, clandestini compresi. «Io – prosegue – sono professore all’Università islamica di Tyro e ho studiato a Beirut le relazioni musulmano-cristiane. La situazione qui è tranquilla dal punto di vista della convivenza religiosa. Ci aiutiamo a vicenda, lavoriamo per uno stesso scopo, che è quello di aiutare la gente. Devo dire che nel Libano del sud abbiamo la fortuna di avere la missione Unifil. Il contingente italiano, in particolare, ha aperto le porte alla gente. Si sono sempre dimostrati disponibili ad aiutare».

Nella base di Shama, in cui attualmente si trova la Brigata paracadutisti Folgore, c’è il maggiore Romina Fedeli, gender advisor, una figura creata per venire incontro alle esigenze delle minoranze locali. La sua è una storia importante. Nel 1997 rimase sotto le macerie del terremoto di Macerata, insieme alla sua famiglia. Per lungo tempo pensò di morire, finché non la salvarono i militari. Decise così di indossare una divisa. Oggi aiuta donne e bambini libanesi. È consulente del comandante per le attività di genere, si occupa di garantire che siano rappresentate le donne di tutte le convinzioni religiose. «Mi hanno raccontato – spiega – che mancano ad esempio le sacche per il sangue. Noi andiamo nei villaggi, parliamo con la gente, cerchiamo di capire di cosa hanno bisogno e, laddove possiamo, portiamo il nostro aiuto». Nel corso del 2022 sono stati forniti al Libano, con la cooperazione civile militare (Cimic), aiuti per 550mila euro, tra strumenti medicali, materiale didattico, sanitario e informatico. Un impegno, quello portato avanti dai militari, che va avanti dal 23 marzo 1978, quando con l’operazione “Litani” le forze Unifil raggiunsero il Libano per insediarsi nella base di Naqura, a seguito della prima invasione israeliana.

Oggi le cose sono cambiate molto. Lungo la Blue Line c’è un muro alto nove metri, costeggiato da una lunga linea di terra minata, che si sporge su quella su cui i cinesi operano ogni giorno lo sminamento. Il passaggio è vietato e solo sporadicamente, quando necessario, si riunisce il Tripartito, ovvero le rappresentanze di Libano e Israele che, in una base avanzata lungo il confine, si incontrano alla presenza del comandante di Unifil per discutere, suo tramite, delle eventuali violazioni.

L’impiego dei militari è volto a supportare le Laf (le forze armate libanesi), a monitorare la cessazione delle ostilità, assistere alla sicurezza dei confini. In questo contesto, la Brigata paracadutisti Folgore è impegnata dallo scorso febbraio sul territorio libanese.

L’Italia è, infatti, alla guida del settore Ovest (Joint Task Force Lebanon Sector West), con oltre 3.600 caschi blu di 17 dei 40 Paesi partecipanti. Il contributo italiano supera attualmente le 1.200 unità.

La Task force integra lo sforzo di numerose altre componenti specialistiche delle nostre Forze armate, le cui capacità assicurano la complementarietà e flessibilità operativa necessaria per l’assolvimento della missione.

Il contributo italiano include il personale di staff all’interno del comando Unifil con assetti dell’Arma dei Carabinieri e, di particolare importanza, la componente elicotteristica della nostra Aviazione dell’Esercito, inquadrata in una Task force specialistica (Italair, attualmente comandata dal colonnello Giuliano Innecco) che assicura attività di pattugliamento, sorveglianza, ricerca, soccorso e trasporto aereo a favore dell’intera missione e dagli uomini di Italbat (presso la base 1.26) comandata dal colonnello Dario Paduano.

«In quest’area – spiega il comandante della Folgore, Roberto Vergori – abbiamo da gestire 109 municipalità. Ogni presidente di municipalità raccoglie le esigenze dei comuni e poi viene deciso quali soddisfare, bilanciando sotto ogni forma il supporto che viene dato alla popolazione. Il budget proviene dalle Nazioni Unite. In questa fase operiamo certamente in un contesto difficile, con scuole pubbliche chiuse e l’80% della popolazione sotto la soglia di povertà, secondo i dati Unifil. Anche gli stipendi statali hanno subito un grosso impatto. In questo contesto, la missione rispetta i criteri della risoluzione 1.701 del 2006. I nostri militari sono preparati a gestire ogni tipo si situazione, hanno capacità tecnica, ma anche una particolare attitudine ad agire con la popolazione. Questo costa sicuramente fatica, ma il risultato non ha prezzo».Allo stato attuale le violazioni della Blue Line non sono molte. Per lo più si tratta di cacciatori che vogliono passare il confine per andare a cacciare in Israele e viceversa.

Un modo come un altro per cercare cibo, vista la crisi che ormai imperversa ed è di difficile risoluzione, con Hezbollah che cerca di tenere le redini della politica e le banche che chiudono i rubinetti senza riaprirli. Nei giorni scorsi a Beirut c’è stata una protesta importante, supportata anche da alcuni politici locali. Nel contrasto di una città che era gioiello del Medio Oriente, in cui ancora si vede circolare qualche Ferrari e il lusso sfrenato dei pochi ricchi ancora rimasti spicca in mezzo a tanta povertà, la rivolta prende fuoco e somiglia molto a quella rivoluzione del Gelsomini che portò la Tunisia prima, la Libia poi e la maggior parte dei Paesi del Nord Africa dopo, a implodere. Da allora (ed era il 2011), sono arrivati in Italia quasi un milione di clandestini. Molti fuggiti inizialmente dalle guerre e dalla fame, la maggior parte migranti economici in cerca di fortuna. La verità è che l’unico modo di fermare le migrazioni è quello di intervenire dando aiuti ai territori di partenza. Chi sostiene il contrario dimostra di non conoscere bene il fenomeno migratorio. La dura realtà è che anche il Libano rischia di implodere.

Malgrado ciò, ancora qualche temerario turista francese o spagnolo si aggira per le strade della magnifica Tyro, alla ricerca delle rovine del porto romano.

Il sindaco Hassan Dbouk sostiene che malgrado l’inevitabile aumento della criminalità e il rischio di infiltrazioni terroristiche, non è ancora tutto perduto. C’é da augurarselo. Per l’Europa.