Scenari

L’impossibile terza via per gestire il territorio

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di Francesco Bertolini

Nel nostro Paese perdiamo due metri quadrati di suolo al secondo, diciannove ettari al giorno. Siamo arrivati a 21.500 chilometri quadrati di territorio cementificato.

Tanto? Poco? Rispondere è complesso, ma il contesto di riferimento ci dovrebbe indurre a qualche riflessione di tipo strategico.

In un Paese dove la popolazione diminuisce e invecchia, dove ci sono dieci milioni di immobili vuoti, si continua a costruire e a invocare il rilancio delle infrastrutture per la crescita del paese. È evidente il corto circuito, e gridare al disastro di fronte a fenomeni alluvionali è inutile se non si ragiona in una ottica più ampia.

Due visioni si scontrano, tutte e due incapaci di avere una visione d’insieme del problema e di identificare logiche in grado di affrontarlo.

La prima visione è convinta, o perlomeno questo comunica, che per far fronte a tali disastri sia necessario cambiare stile di vita, convertirsi all’elettrico, eliminare il trasporto privato, mangiare insetti così da evitare gli allevamenti intensivi, e ricoprire le terre fertili con pannelli fotovoltaici. Questa visione dà per scontato che rinunciare a tutto questo consentirà di stabilizzare la temperatura del pianeta e ridurre così gli eventi estremi.

Nessuno riuscirà mai a segnalare a questa visione di pensiero che l’Emilia Romagna ha avuto alluvioni regolarmente da sempre, e che le uniche infrastrutture che non hanno subìto danni da questi eventi sono i ponti romani vecchi di duemila anni.

Questi eventi meteo si ripetono più o meno con cadenza regolare nel tempo, ciò che cambia sono gli effetti che questi generano, dovuti proprio alla cementificazione e al consumo di suolo, ma dare la colpa a chi ha governato quel territorio, da sempre considerato patria del buon governo, è impossibile, solo nelle aree del paese storicamente non governate dalla sinistra le politiche del territorio sono irresponsabili e incuranti delle conseguenze sulla vita delle persone.

L’altra visione, che si oppone ideologicamente alla farina di insetti o all’elettrificazione assoluta della mobilità, è convinta che nuove infrastrutture siano in grado di affrontare meglio il problema, come è stato fatto con il Mose a Venezia, senza porsi grandi domande con il consumo di suolo.

Le due visioni, quindi, in realtà rimuovono la causa fondamentale di questi disastri, e cioè la cementificazione del territorio, dimenticando le teorie che stanno alla base di una gestione sostenibile di un paese, o di una regione.

L’impatto ambientale (I) è il risultato congiunto di tre variabili (I=PxAxT) e cioè il numero di persone che gravano su un territorio (P), il livello di vita e i consumi di quelle persone (A, in inglese Affluence) e la tecnologia, che dovrebbe compensare le altre due variabili.

Ebbene in Italia, siamo, se la vediamo da questo punto di vista, paradossalmente fortunati, avendo una variabile critica, e cioè la popolazione che non cresce ormai da anni; ci rimangono due aspetti su cui è possibile intervenire, il primo si scontra naturalmente con i legittimi desideri di cittadini che desiderano migliorare i propri standard e il secondo è connesso all’uso della tecnologia per monitorare e aumentare l’efficienza nell’uso delle risorse o nella progettazione di opere di contenimento degli eventi avversi.

Nessuno ha mai affrontato il tema della gestione del territorio e della sostenibilità partendo da queste premesse fondamentali, ogni agenda politica, di qualunque colore, si muove come un pesce che si agita in maniera convulsa, fuori dall’acqua.

Anche questa volta sarà la stessa cosa, stato di calamità, e poi tutto tornerà come prima, con un Piano nazionale di ripresa e resilienza che parla di sostenibilità e finanzia infrastrutture, che, a differenza dei ponti romani della Romagna, richiederanno sempre più risorse per la loro manutenzione, aumentando il livello di complessità del sistema, convinti che queste opere potranno gestire meglio gli eventi avversi che si presenteranno in futuro.

L’arroganza e la presunzione dell’uomo tecnologico (la famosa T) convinto di poter dominare la natura ci porterà a disastri sempre peggiori; ridare spazio al suolo, che rappresenta la frazione del pianeta da cui dipende la nostra vita, è l’unica opzione sensata per evitare o almeno ridurre gli effetti delle prossime alluvioni. Ma è una terza via che nessuno nemmeno prende in considerazione.