Scenari

Tassi alti a lungo? Per le imprese rischi e opportunità

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di Giuseppe Russo
Direttore Centro Einaudi di Torino

La Bce ha fermato la corsa dei tassi. Quanto meno per ora. Lo stop è avvenuto in attesa di nuovi dati, ma non solo. A forza di rialzi i tassi di interesse reali, ossia i tassi di interesse al netto dell’inflazione, sono tornati positivi, come dovrebbero essere in tempi normali. Ma cosa sono i tassi di interesse reali? Esprimono il costo reale dell’indebitamento (ossia del credito) e nel lungo periodo dovrebbero essere equilibrati dal rendimento del capitale.

Ebbene, considerando come tasso di interesse il tasso marginale di rifinanziamento della Bce, esso è stato superiore al tasso di inflazione fino a intorno al 2009 con un margine di circa 3 punti. Poi la differenza tra interessi e inflazione si è chiusa, di misura che la Bce, allora dipendente da Draghi, ha scelto di portare i tassi di interesse al di sotto dell’inflazione, rendendo nullo o perfino negativo il costo reale del credito. Eccellente situazione per tutti i debitori, che si sono trovati a rimborsare i prestiti con un potere di acquisto decurtato, neppure compensato dagli interessi versati ai creditori.

Questa situazione è durata fino al mese scorso. Poi, da ottobre 2023 i tassi, salendo al 4,75% sono stati portati oltre l’inflazione core (4,5%), ossia quella che identifica la vera inflazione endogena dell’Eurozona, perché dall’inflazione core sono esclusi i prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari, la cui volatilità è esogena.

Ci si potrebbe chiedere se stiamo tornando davvero alla normalità pre-2009, ma la semplice regressione verso la media di lungo periodo potrebbe non spiegare integralmente il fenomeno che stiamo osservando. I tassi reali, per dirla tutta, nel breve periodo sono influenzati dalle politiche monetarie, che aumentando i tassi nominali riducono il credito all’economia per contrarre la domanda di beni e servizi quel tanto che basta da imprimere nei prezzi generali di beni e servizi una spinta deflazionistica. Nel lungo periodo i tassi di interesse reali sono stati piuttosto mossi da tendenze secolari e dovrebbero convergere verso il tasso di rendimento del capitale. Queste tendenze sono studiate di recente in un paper della Bank of England. Prendendo come riferimento buona parte delle economie attualmente sviluppate, i ricercatori hanno trovato una tendenza dei tassi reali di interesse a ridursi di 0,6-1,6 punti base per anno negli ultimi otto secoli. (Eight centuries of global real interest rates, R-G, and the ‘suprasecular’ decline, 1311–2018 | Bank of England)

Significa che il prezzo reale del denaro da offrire in prestito è andato riducendosi man a mano che l’attività creditizia è diventata più sicura e i prezzi del suo esercizio hanno incorporato un declinante premio di rischio. Vuol anche dire che il credito offerto è stato secolarmente in via progressiva più abbondante e meno raro rispetto alla domanda di prestiti, di misura che il benessere ha diffuso e reso possibile la pratica di risparmiare tra le famiglie. Diversi osservatori si sono chiesti se nell’ultimo decennio questo tasso reale anemico non fosse anche l’esito di una domanda di prestiti troppo bassa, per inappetenza degli investimenti. Questo è certamente concreto. Gli investimenti lordi nell’economia italiana sono intorno al 21% del Pil, inclusi ammortamenti e costruzioni. Ma al netto di queste componenti vi sono stati anni nei quali gli investimenti netti sono stati addirittura negativi, come dire che il sistema economico, spontaneamente, investe troppo poco e dunque non fa salire il Pil potenziale. Investendo troppo poco, in passato, abbiamo indotto un eccesso di risparmio e un ribasso dei tassi di interesse reali.

Un tasso reale pari a zero, come quello che abbiamo avuto due volte negli ultimi dieci anni – quando Draghi pronunciò il famoso «whatever it takes» nel 2012 e quando la pandemia indusse la Bce a finanziare i bilanci pubblici – tuttavia, non solo non è più possibile, ma non è neppure auspicabile, perché sarebbe un segno che nel lungo termine la domanda di investimenti è inferiore all’offerta di risparmio. Nei prossimi dieci anni, invece, l’Europa dovrà investire più che in passato, non fosse altro per adempiere alle due transizioni, verde e digitale, che implicano investimenti pubblici che trascinano a loro volta investimenti privati. Per non dire degli investimenti che saranno necessari per fornire ai cittadini certi beni pubblici, come la sanità in un’Eurozona che invecchia o come la sicurezza, che sta costringendo gli Stati ad extra-budget a causa delle guerre, in una escalation che non è ancora finita.

Per le imprese i tassi che contano non sono poi solo quelli reali, tornati positivi per le ragioni dette, ma nel breve periodo esse guardano i tassi di interesse nominali, perché sono quelli che servono quando si fa il budget annuale. I tassi nominali sommano il tasso reale di lungo periodo al tasso di inflazione attesa. Una regola di questo tipo potrebbe essere considerata anche dalla Bce, che infatti ha appena deciso una pausa nella crescita dei tassi, dopo che per la prima volta da anni il tasso reale è finalmente tornato positivo.

Occorre quindi gettare un fascio di luce sull’inflazione di lungo periodo. Come si vede dal grafico, quando i tassi di interesse reali sono andati a zero, ciò è avvenuto in un clima di deflazione, evidente dall’inflazione negativa del 2009 e del 2015. Quella deflazione, tuttavia, era figlia di un’epoca storica tramontata, e in linea di massima collocabile tra il 1995 (inizio della WTO) e il 2015: in quel periodo l’occidente e l’Europa hanno importato una mitigazione dei prezzi interni attraverso i prodotti fatti in Asia e realizzati pagando un costo del lavoro molto basso. Le ragioni di scambio però non le decide la politica economica, ma le condizioni dei mercati e delle valute. Tuttavia, i politici dei Paesi sviluppati sono usciti da quel periodo con la convinzione di avere trasferito troppi investimenti e posti di lavoro in Asia. I politici dei Paesi emergenti, d’altra parte, rivendicano la volontà di crescere anche nei settori ad alta tecnologia, per rendersi indipendenti dall’occidente. Non è la fine della globalizzazione, ma segna l’inizio di un’epoca di rapporti guardinghi che non comporterà ulteriori vantaggi per gli europei. Le importazioni dei prodotti lontani costeranno di più, come quelli delle rare materie prime. L’inflazione dunque scenderà ancora, ma dimentichiamoci quella negativa.

Se lo scenario di tassi di interesse reali più alti (a ragione della crescita della domanda di investimenti) e di ragioni di scambio sfavorevoli all’inflazione europea (stabilmente positiva) dovesse realizzarsi, la conseguenza sarebbe che i tassi tenderanno a essere più alti anche in termini nominali e nel lungo periodo, mentre la politica monetaria in caso di contrazione dell’economia non potrà fare un secondo miracolo, come nel 2012, semplicemente perché le condizioni di base che permisero il primo, ossia la deflazione, non esisteranno più. Le conseguenze di questo scenario per le imprese, incluse le Pmi, saranno numerose. In primo luogo, il costo medio del capitale potrebbe salire non per un anno solo, ma permanentemente; questo costringerà le imprese ad essere più selettive e più efficaci nell’attività di investimento. In secondo luogo, il costo del capitale circolante, a zero per anni, è tornato positivo per restare. Anche in questo caso, le strategie di ottimizzazione del circolante dovranno essere rafforzate. In terzo luogo, con tassi più alti sarà opportuno rivedere il leverage, ossia il rapporto tra il debito e il capitale proprio e torneranno di attualità le strategie di rafforzamento patrimoniale, il che vorrà dire che le restituzioni del capitale agli azionisti, ad imitazione dei buy back diffusi in Borsa, diventeranno non più sostenibili. Potremmo vedere inoltre più IPO (nuove quotazioni) e questa sarebbe una buona notizia anche per il nostro capitalismo, sempre sottorappresentato in Borsa. Ma anche fusioni e acquisizioni riprenderanno con forza, al fine di rendere efficiente la gestione del capitale e abbassarne il costo medio, sfruttando di più anche le economie di scala. Dietro la salita dei tassi di interesse, in altri termini, non c’è solo la volontà dei banchieri centrali di stroncare l’inflazione: c’è l’adattamento a un contesto finanziario globalmente più delicato e complesso, non privo, tuttavia, di occasioni per rivedere le strategie di finanziamento e di scelta dimensionale. Non tutto il male vien pertanto per nuocere