Economia della Conoscenza

Api senza nettare ma le salverà il nomadismo

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di Alessandro Paciello

Albert Einstein sosteneva che «se sparissero le api dal nostro Pianeta, il genere umano non sopravvivrebbe oltre i quattro anni». In effetti, la tendenza riguardante le nostre piccole amiche, e di conseguenza la nostra esistenza, non sta andando per il meglio: secondo i dati recentemente diffusi dal WWF, negli ultimi trent’anni abbiamo perso il 75% della biomassa di insetti impollinatori, tra cui proprio le api, a causa dell’uso indiscriminato di pesticidi, oltre che dei cambiamenti climatici in atto.

Come ormai sanno anche i bimbi che studiano alle elementari, le api non producono solo il miele e la cera, ma garantiscono con il loro lavoro la biodiversità e l’equilibrio dell’intero ecosistema dal quale noi esseri umani traiamo sostentamento per la nostra vita. Coinvolto e preoccupato da questi dati, non certo incoraggianti per il futuro, incontro Giancarlo Naldi, direttore dell’Osservatorio Nazionale Miele, quindi una grande e autorevole competenza in materia.

Dottor Naldi, come è arrivato nella sua vita a occuparsi di api?

Ho una formazione di base agricola: perito agrario, corsi di formazione della FAO sulla divulgazione agricola e sono giornalista professionista, avendo anche diretto delle testate che si occupano di approfondimento e divulgazione delle tematiche della sostenibilità che io definisco “integrata”.

Cosa intende per “sostenibilità integrata”?

A mio parere non esiste una sostenibilità, ma più sostenibilità, tanto che parlo di “diverse sostenibilità”: sostenibilità ambientale sì, ma anche economica, sociale, e così via. Ecco perché la chiamo anche “sostenibilità integrata”.

Tornando alle api e al miele…

Mentre mi occupavo di “sostenibilità integrata” entro in contatto con realtà molto importanti presenti nel mio territorio, che si trova a cavallo tra l’Emilia e la Romagna. Qui esistono delle esperienze, e delle testimonianze, di apicoltura professionale molto antiche, che risalgono al Settecento, condotte anche da possidenti terrieri che hanno reso professionale l’attività degli apicoltori. Esistono anche registri che lo testimoniano.

Uno dei personaggi più noti legati all’apicoltura dell’era contemporanea di questa terra, è stato senz’altro Giulio Piana che, tra le altre cose, ha esportato le nostre “api Regine” in tutto il mondo. Ma, fondamentalmente, ha fatto tre cose altrettanto importanti: ha modernizzato l’arnia; ha sviluppato il nomadismo, cioè il portare le api laddove ci sono le migliori fioriture per produrre diverse qualità di miele e maggiori quantità, e, come conseguenza, una più attuale promozione al mercato del prodotto che significa non offrire il miele in quanto tale, ma i “diversi tipi di mieli” a seconda del tipo di fiori che sono alla base dell’attività delle api.

Giulio Piana è morto nel 1978. Per ricordarlo esiste il Concorso di Qualità Giulio Piana. Da un’organizzazione all’inizio “ruspante” siamo passati a una fase più professionale che ha portato alla costituzione di un osservatorio nazionale chiamato Produzione e Mercato Miele per dare struttura al settore dell’apicoltura italiana, cercando di evitare la classica associazione e creando, invece, un organismo di supporto che potesse aiutare a monitorare la produzione, la qualità e a promuovere sul mercato il prodotto.

Successivamente, il concorso è stato trasformato in Concorso Nazionale Tre Gocce d’Oro, a cui hanno partecipato circa cento tipologie di mieli; all’ultima edizione, nel 2022, erano presenti ben 1.466 mieli italiani. Grazie a questo concorso, iniziato nel 1981, è nata un’impressionante raccolta dati sui mieli italiani che ha portato persino alla Banca Mieli che conserva i campioni dei mieli per dieci anni per poter fare indagini e valutazioni di carattere pluriennale sui trend.

Ma il consumatore che compra un miele a cosa deve stare attento per essere sicuro di affidarsi a un buon prodotto di qualità?

Leggere due cose sull’etichetta. La prima è la provenienza: che sia italiana! Poi, l’origine floreale. Stiamo poi lavorando a un marchio che rappresenti un Sistema di Qualità Nazionale, un SQN, che qualifichi un miele superiore che non sia riscaldato, ultrafiltrato, e che con un disciplinare indichi l’elevata qualità organolettica del prodotto.

Mi può descrivere l’odierno mercato del miele?

Non solo mieli. Ci sono anche la cera, il propoli, il polline, il veleno d’api ma, soprattutto, deve essere considerata l’impollinazione, cioè la preservazione della biodiversità che ci permette di sopravvivere su questo Pianeta. È per questo che portiamo avanti una battaglia politica insieme ad altre associazioni, affinché sia assicurato un sostegno all’apicoltura e all’ecosistema che ospita le api. Il problema infatti è che sta diminuendo la disponibilità di nettare e questo per due ragioni: la prima è che le nuove cultivar come il girasole, la colza, la medica sono state selezionate con l’obiettivo di potenziare la produzione primaria a cui sono destinate, cioè l’olio e i mangimi. Ciò ha portato a una forte diminuzione della “capacità nettarifera”. Quindi, stiamo sostenendo nelle opportune sedi che si deve supportare anche la capacità secondaria dell’agricoltura di sostegno all’attività degli insetti impollinatori.

C’è un ascolto in tal senso da parte dei vostri interlocutori?

Direi di sì, al momento: oggi ci sono incentivi per gli agricoltori che adottano pratiche e ordinamenti colturali a favore degli impollinatori. Purtroppo, però, in negativo influisce il cambiamento climatico. Un dato: dove prima di miele di acacia, che è forse la qualità più popolare tra i consumatori italiani, venivano prodotti 40 o 50 chili per alveare, oggi se ne riescono a fare al massimo 20. L’altro problema sono i pesticidi usati in agricoltura. C’è stata una maggiore sensibilità al riguardo, recentemente, anche perché siamo riusciti a dimostrare scientificamente che alcune di queste sostanze chimiche non solo sono dannose, ma anche inutili.

Ma, quindi, come stanno le api oggi?

Non c’è quello spopolamento che abbiamo registrato in anni passati e questo per un motivo: esistono solo in Italia ben un milione e settecentomila alveari che gli apicoltori curano con grande devozione. Da un lato, è vero che ci sono meno “api selvatiche”, calate perché non difese dall’uomo, ma le api che sono tutelate dagli apicoltori che adottano un “nomadismo” per fuggire da trattamenti agricoli aggressivi e nocivi stanno mantenendo una buona presenza. Nonostante ciò, il cambiamento climatico rende comunque dura la vita dell’apicoltore, com’è avvenuto in questa primavera con una perdita produttiva per oltre 90milioni di euro. Come umani, dobbiamo molto a questi apicoltori e alle loro api!