Inchieste

«Altro che Robin Hood, gli hacker sono smanettoni o impiegati»

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di Antonio Dini

Dimentichiamoci l’idea romantica degli hacker come dei Robin Hood che tolgono i dati ai ricchi per darli ai poveri. Invece, sono dei malviventi, alle volte solo smanettoni e alle volte spie digitali al servizio del potente di turno. E pronti a costruire intere carriere politiche con le manipolazioni dell’opinione pubblica. Soprattutto, però, sono degli impiegati del codice che fanno un lavoro che richiede più furbizia che non intelligenza.

Andrea Aparo è rapidissimo a far tornare qualunque intervistatore con i piedi per terra e a confrontarsi con la realtà, non col mito. Il primo passo è prendere coscienza del problema: i computer da cui tutti ormai dipendiamo, perché non c’è attività oggi che non sia mediata dai computer, sono insicuri.

«E la stragrande maggioranza delle persone – dice Aparo – quando li usa non ha neanche la più pallida idea di cosa sta facendo. Quello è il problema, il resto è conseguenza».

Aparo è un tecnologo di lungo corso, docente di strategia aziendale alla Sapienza di Roma, ma lui preferisce definirsi un cantastorie. Manager e dirigente d’azienda (ha creato tra le altre cose la prima web agency italiana), quando era al Mit di Boston nel 1982 ottenne la matricola numero 2.370 come utente di Arpanet, la madre di Internet. La storia della tecnologia, insomma, la conosce perché l’ha vissuta in prima persona.

Il problema degli hacker. Non è tecnologico, ma culturale. «L’idea che si tratti di Robin Hood è un mito», dice. La mentalità dei primi hacker era analoga a quella dei ragazzini che da noi truccavano la Vespa per il gusto della sfida. «Poi i Carabinieri ti fermavano e te la sequestravano, ma tu intanto ti eri messo alla prova: anche se era illegale era anche molto divertente». Gli smanettoni erano le prime generazioni di hacker. Oggi, invece, la maggioranza è di altri tipi umani: ladri, truffatori e spie.

«C’è chi lo fa per motivi pecuniari, ruba i dati sensibili al pollo di turno». O chi lo fa per danneggiare o sottrarre informazioni altrui magari con la motivazione della sicurezza nazionale. «Tutti – dice – dalla Russia alla Cina sino alla Nsa americana e ai quattro gatti italiani, hanno un servizio di intelligence digitale. Spie, insomma, che fanno un lavoro da spie, cioè tendenzialmente da impiegati».

Infatti, un altro mito da sfatare, oltre a quello di Robin Hood, è che gli hacker siano dei James Bond o degli Arsenio Lupin. «Invece sono impiegati del codice, che provano metodicamente una serie di strumenti fatti da altri sino a che il grimaldello digitale giusto non funziona». Anche il punto di incontro, il Dark web, è un mito che andrebbe smontato: «Non è il paradiso degli hacker, è un posto sordido e squallido. Ma non va vietato, sennò diventa attraente. Fosse per me, organizzerei delle gite scolastiche settimanali con docenti capaci e studenti, per mostrarne la banalità e la pericolosità».

I veri nemici, invece, sono altri. «I geni del male, gli Zuckerberg e gli altri sfruttatori digitali che hanno trovato il modo di rubare i nostri dati, cioè la nostra vita in formato digitale, tracciandoci e azzerando la nostra privacy». E che aprono la porta a chi vuol manipolare l’opinione pubblica. «Società semi-sconosciute che creano consenso a pagamento, per alimentare il populismo e costruire personaggi pubblici a suon di fake».

Esistono davvero i consulenti che a suon di manipolazioni digitali fabbricano parlamentari, ministri, governi interi? Aparo sorride: «Ufficialmente non si sa. Ma se, come diceva Andreotti, “a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”, allora direi proprio di sì».