Inchieste

Deglobalizzazione: alleanze e distretti per forniture 4.0

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di Lorenza Resuli

Prima del Covid, il turismo cinese rappresentava il più grande gruppo di viaggiatori globale con 155 milioni di turisti, i quali nel 2019 hanno speso a livello globale oltre 250 miliardi di dollari. Con questi numeri si capisce perché la riapertura decisa a inizio anno dal governo di Pechino ha ridato sprint al settore della moda e del lusso europeo.

I turisti cinesi sono tornati nei negozi grazie al fatto che tutte le restrizioni nei loro confronti sono state gradualmente eliminate nei paesi dell’Unione e dell’area di libero scambio Schengen, vale a dire Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera.

Non è un caso che le valutazioni azionarie delle grandi maison siano tutte lievitate spinte da aspettative di mercato di incremento di ricavi e utili. Quello che non è chiaro è se la catena del valore della moda abbia subito dei cambiamenti per effetto dell’incertezza geopolitica generata prima dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina.

Quello che sta succedendo è che proprio la riapertura della Cina ha contribuito ad allentare i “colli di bottiglia” e a ripristinare le catene di approvvigionamento precedentemente interrotte più rapidamente di quanto la maggior parte degli economisti avesse previsto. Inoltre, gli Stati Uniti stanno facendo un passo indietro rispetto alla necessità di un “disaccoppiamento” con la Cina (“decoupling”) e l’Europa ha mostrato la volontà di trovare una sua strada nei rapporti con il Paese asiatico che riduca al minimo il rischio di eccessiva dipendenza dalle forniture e allo stesso tempo non pregiudichi i legami commerciali.

Insomma, ci sono elementi che fanno pensare che il previsto processo di deglobalizzazione della moda non sia mai iniziato, anche se, come spiega al Settimanale, Ercole Botto Paola, presidente di Confindustria Moda, la necessità di ridurre la lunghezza delle supply chain, per abbattere i costi di trasporto e ridurre il time to market dei prodotti, è una necessità reale.

«Per le decine di migliaia di piccole e medie imprese che compongono la filiera italiana del tessile, moda e accessorio, le trasformazioni che l’industria sta vivendo rappresentano un’enorme opportunità – osserva – Per comprenderlo, è necessario focalizzare l’attenzione sui cardini di questa trasformazione: digitalizzazione e sostenibilità».

I driver principali di mercato oggi sono l’aumento dei costi dell’energia e la difficoltà nel reperire le materie prime. Difficoltà che, logicamente, spingono al rialzo i costi. «Questo comporta la necessità di ridurre la lunghezza delle supply chain, per abbattere le spese di trasporto e ridurre il time to market dei prodotti – prosegue Botto Paola – Qui la digitalizzazione gioca un ruolo fondamentale, perché in grado di migliorare previsione della domanda e gestione dell’inventario. Così le aziende possono evitare sovrapproduzione e sotto-produzione, riducendo gli sprechi di materiali, energia e risorse».

Nel 2022, sono state decine le operazioni di acquisizione e fusione che hanno coinvolto la galassia dei terzisti, segno dell’importanza crescente per i grandi gruppi globali di presidiare tutta la catena della produzione con imprese di eccellenza. Come si affronta questo scenario? «Lavorando come sistema, e non come singole realtà. Come sistema fatturiamo oltre 100 miliardi di euro e diamo lavoro a 600mila persone. Ma, da soli, siamo prevalentemente piccole e medie imprese che non possono fare gli investimenti necessari per competere sul mercato globale. Puntiamo sui distretti quindi, sull’unità, per accelerare la trasformazione della nostra supply chain, sempre più digitale e sostenibile».

Seay, taglio plastiche e sconti a chi rende articoli da rigenerare

«Spreca meno, ricicla di più». Questo non è solo un semplice motto per la Seay, startup vicentina nata nel 2019 che – come evoca il suo nome (“sea”, mare) – produce beachwear e abbigliamento per sport acquatici. È una vera missione, che si traduce in una lunga lista di comportamenti virtuosi: riduzione al minimo della plastica e della microplastica nei propri capi, molti dei quali dotati di certificazione Oeko-Tex Standard 100, che indica tessuti ecocompatibili; utilizzo di materiali riciclati e indumenti di seconda mano; filiera corta; impegno a promuovere attività che abbiano un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

Nel 2020, infatti, l’azienda fondata da Alberto Bressan e Simone Scodellaro è diventata Società Benefit, nel 2021 una B Corp certificata. Emblema dell’impegno sul fronte della sostenibilità è Re3, un sistema di economia circolare che Seay ha brevettato per ridurre l’impatto ambientale dei capi usati. Come? Coinvolgendo gli stessi consumatori. Ogni volta che acquista un capo Seay, l’utente riceve uno sconto del 20% se ne spedisce uno usato della stessa categoria merceologica, identificato tramite un QR code che consente di identificarne la provenienza e tracciarne il destino: Re-Sold (rivenduto come vintage), Re-Used (donato a persone in difficoltà), Re-Generated (rigenerato per creare nuovi prodotti).

La prima camiceria italiana tutta digitale

«E se sovvertissimo le regole del “su misura” e creassimo uno shop online, in cui confezionare una camicia sartoriale con un semplice click e un sarto digitale?».

Un’idea azzardata e quasi rivoluzionaria nell’intransigente mondo della moda, dove il “made to measure” evoca subito il sarto in carne e ossa, armato di metro e spilli. Gaetano Diana, Fabrizio De Bosini, Valerio Paoletti e Paolo Minasi accettano la scommessa e, nel 2021, lanciano in rete la prima camiceria italiana totalmente digitale.

«Il su misura è un mondo percepito spesso come antico e complesso, che richiede organizzazione, tempo e denaro» dice Gaetano Diana, founder e CEO di MyCamicia. «Per questo è frequente ripiegare su capi industriali, fast fashion, che non soddisfano mai al 100%. Con MyCamicia abbiamo voluto eliminare il “fast” e mantenere il “fashion”: un prodotto artigianale made in Italy, digitale, made to measure e made to last».

Una vera sartoria online, insomma, che si affida solo ad artigiani locali e che, grazie a un configuratore 3D, permette di creare direttamente sulla piattaforma la propria camicia ideale, scegliendo stoffa, fantasia e persino tipologia di colletto e polsini tra migliaia di combinazioni possibili. A selezione compiuta, semplici video-tutorial guidano passo dopo passo in quella complicata operazione che è “prendere le misure”. E in meno di due settimane, arriva a casa un capo perfetto, che calza a pennello.

I numeri dei primi tre anni di attività di MyCamicia confermano che la formula è vincente: 7.000 utenti già registrati nel database, il 60% di ritorno sulla piattaforma, oltre 10mila camicie già realizzate e un fatturato triplicato dal lancio. Ma a determinare il successo di questo e-shop unico non è solo la possibilità di acquistare una camicia di altissima qualità in qualsiasi momento e da qualunque luogo. Piace anche il modello di realizzazione “just in time” amico dell’ambiente, perché qui la filiera è cortissima (non ci sono intermediari!) e si confeziona solo ciò che viene ordinato: niente spreco di tessuti, dunque.

Prossimo step? Investire i 124mila euro raccolti con la recente campagna di equity crowdfunding, che ha attirato oltre 80 investitori, nel primo negozio “reale” che verrà aperto a Roma e che sarà dotato di una vera cabina di misurazione automatizzata. «È un cabina dotata di scan a 360° capace di prendere le misure in maniera precisa» spiega Gaetano Diana. «Così il “su misura” diventerà un processo ancora più accessibile, rapido, smart». E dunque buona camicia a tutti, ma proprio a tutti!