Inchieste

La rivoluzione delle macchine intelligenti è già iniziata, ma non per tutti

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di Antonio Dini

Se fino a ieri pensavamo che sarebbero stati genericamente i computer e i robot a guidare la transizione verso una società trans-umana (come ipotizzata da vari autori di fantascienza ma anche dagli esponenti del movimento transumanista), da alcuni mesi sta emergendo l’idea che sono le intelligenze artificiali – IA, anche se ormai si è affermata la sigla inglese AI – che cambieranno per sempre il nostro futuro, almeno da quando OpenAI lo scorso novembre ha ufficialmente aperto il vaso di Pandora con ChatGPT.

Ma cosa sta succedendo realmente in questo settore? Cosa sono le AI e dove ci stanno portando?

Il 95% degli italiani sa che cosa voglia dire “AI”, anche se solo tre su cinque sanno riconoscerne le funzioni nei prodotti e servizi che usano quotidianamente.

Secondo una ricerca Ipsos, in Italia, dove le competenze digitali sono arretrate rispetto alla media europea, un italiano su tre non sa che l’AI può automatizzare delle attività umane come la creazione di immagini o di testi. Due su tre però lo sanno e uno sa anche cosa sia e come si usi ChatGpt. Praticamente nessuno, invece, conosce gli altri sistemi, come Dall-E o Bard di Google. Quasi la metà delle persone intervistate pensa che questi strumenti possano semplificare la loro vita man mano che si diffonderanno.

È un segnale emblematico del fatto che in Italia, come nel resto del mondo, l’AI sta entrando nell’immaginario collettivo oltre che nel mondo del lavoro molto velocemente. ChatGPT, infatti, ha fatto emergere in maniera spettacolare una tendenza già in atto da alcuni anni.

I settori assicurativo e bancario sono i più attivi: dalla computer vision per l’analisi delle frodi alle smart e instant policy sino alla Intelligent Process Automazione (per ridurre i costi del flusso di lavoro delle pratiche assicurative o dei mutui). L’intero settore Fintech utilizza a vari livelli delle funzioni di AI, dal brokeraggio agli investimenti fino al monitoraggio del rischio e alla sottoscrizione crediti negli smart contract.

Quello degli smart robot sta diventando un settore industriale profittevole a livello mondiale: che siano i piccoli assistenti che puliscono i pavimenti di casa o i macchinari industriali per assemblare pezzi, i robot smart stanno per cambiare il mondo.

Secondo Ark Invest un robot industriale medio che costava 70mila dollari nel 2005 ne costa solo 27mila nel 2015 e oggi il prezzo è sceso ancora. A Shanghai la Abb ha aperto una mega-fabbrica da 67mila metri quadri in cui robot producono altri robot. Lo stock globale dei robot industriali nel mondo è salito da un milione dodici anni fa agli attuali 3,5 milioni. Ma di strada da fare ce n’è ancora molta: secondo Ifr per ogni robot industriale nelle aziende occidentali ci sono in media 35 operai. mentre Boston Consulting Group registra che nel 2020 i robot industriali hanno intercettato meno dell’1% della spesa globale in conto capitale: la rivoluzione insomma deve ancora partire.

Altri settori che stanno scoprendo e usando sempre di più le AI sono le telecomunicazioni (sia per la gestione smart degli impianti che per le attività commerciali), il mondo della grande distribuzione organizzata e quello della salute. Nonostante i ritardi, in quest’ultimo oggi c’è attenzione crescente da parte delle grandi case farmaceutiche. I vincoli normativi ne rallentano la partenza.

Il comparto manifatturiero sta beneficiando dei sistemi smart per la manutenzione predittiva, l’efficientamento della produzione e l’automazione dei controlli di qualità. Ma le quote sono ancora molto basse rispetto all’intero mercato: meno del 15%.

A rallentare la diffusione delle AI e dei robot smart sono i lunghi tempi di ammortamento delle attrezzature, gli ambiti in cui il lavoro manuale dell’essere umano è più efficiente (le dita di una mano hanno 244 piani di movimento, un robot solo sei) e la lentezza nella diffusione dei software di automazione per l’ufficio. Un settore quest’ultimo che, secondo Idc, oggi vale appena 20 miliardi di dollari all’anno a livello planetario.

In generale, poi, in tutto il mondo occidentale c’è un divario significativo nell’avvicinamento alla tecnologia dovuto alla dimensione di impresa. Se da un lato, infatti, cresce sistematicamente il numero di grandi aziende che ha avviato almeno un progetto legato alle AI (in Italia sono circa il 60%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020,), dall’altro lato solo il 15% delle Pmi aveva fatto fino al 2022 altrettanto: in particolare, i progetti a regime sono solo il 2% mentre nel 4% dei casi si tratta di semplici sperimentazioni. Nel corso del 2022, come vedremo nel dettaglio più avanti, il numero di chi si è affacciato alla nuova realtà e ha in programma di adottarla, è già quasi raddoppiato.

Le possibilità di automatizzare in maniera intelligente diverse funzioni o interi comparti delle filiere passa dalla diffusione della tecnologia delle AI, che però al momento, è ancora lontana dall’essere diffusa in maniera pervasiva. La rivoluzione, a ben guardare, quindi deve ancora cominciare.

Tuttavia, secondo un rapporto previsionale di Goldman Sachs, uscito a fine marzo, l’AI porterà ad un boom della produttività che potrebbe far aumentare il prodotto interno lordo globale del 7% in un periodo di 10 anni, ma anche esporre all’automazione l’equivalente di 300 milioni di lavoratori a tempo pieno nelle grandi economie.

In sintesi i ricercatori calcolano che circa due terzi dei posti di lavoro negli Stati Uniti e in Europa siano esposti ad un certo grado di automazione dell’AI, in migliaia di diverse occupazioni.

Un salto di qualità nella sfida tra uomo ed evoluzione

Il cervello umano storicamente si è sempre adattato al cambiamento. Ora è diverso: l’AI toglierà lavoro a chi non la sa usare per darlo a chi la sa usare

Il miracolo, se di miracolo bisogna parlare, in realtà è il nostro cervello, non le tecnologie che da sempre ci inventiamo. Sin dalla preistoria e mano a mano che abbiamo cominciato a utilizzare attrezzi sempre più sofisticati per compiti più complessi, il nostro cervello è sempre stato in grado di adattarsi plasticamente al loro uso.

Come spiegano le neuroscienze, il nostro cervello si adatta rapidamente e assimila tutto: nell’arco di una generazione tecnologie che sembrano magiche a chi è più anziano diventano perfettamente naturali per chi ci è nato. Anche tecnologie “impossibili”, come la protesi per la mano con un sesto dito (un nuovo pollice) non dà problemi: dopo pochi giorni il nostro cervello la considera perfettamente normale.

Per questo oggi i sociologi parlano di “nativi digitali”, così come quarant’anni fa parlavano della Mtv Generation, la generazione nata con la tv e la musica. E il gioco tra le vecchie generazioni che resistono e le nuove che abbracciano il cambiamento è antichissimo con conseguenze spesso radicali: dalla polvere da sparo (neutra per i cinesi che l’hanno inventata, micidiale per noi occidentali) alla stampa a caratteri mobili (che ha dato via alle riforme protestanti e secoli di guerre di religione) fino al telaio di Jacquard o al motore a scoppio. Leopardi stigmatizzava il progresso con le sue «magnifiche e progressive sorti» mentre tutta la Recherche di Marcel Proust è un viaggio all’indietro per superare i cambiamenti introdotti dalla modernità.

La domanda che oggi pone l’intelligenza artificiale, però, è parzialmente diversa. Perché il cambiamento per la società e gli individui si annuncia radicale. È facile pensare di integrarla nel nostro quotidiano. Anche perché in parte è già successo: dal riconoscimento del volto nelle foto con lo smartphone ai consigli per gli acquisti su Amazon, dietro le quinte c’è lei, l’intelligenza artificiale, che si ciba dei nostri dati per fornire soluzioni non prevedibili a priori.

Il problema non sono i chatbot che parlano come se fossero persone anche se non lo sono: sono solo pappagalli meccanici alimentati dalla statistica e da un oceano di dati. E neanche le intelligenze generali artificiali, quelle cioè che ragioneranno come noi, perché gli scienziati non sanno come fare a farle.

Invece, il problema è che nei prossimi anni integreremo ChatGPT e i suoi fratelli in sistemi sempre più complessi che toglieranno lavoro a chi non li sa usare per darlo a chi li sa usare. Chiuderanno molte aziende, altre cambieranno radicalmente e infine ne nasceranno di completamente nuove.

La domanda che pone l’intelligenza artificiale è: quali strategie possiamo creare per ridurre al minimo i costi di questa trasformazione epocale? Finora non abbiamo mai trovato una risposta soddisfacente, ma è il momento di cercarla sul serio.

Sociologi addio, ecco i futuristi la nuova categoria di consulenti

Non chiamateli “futurologi”, altrimenti si arrabbiano. Le aziende hanno scoperto una nuova categoria di consulenti: i “futuristi”. Se fino a una decina di anni fa molte grandi aziende si rivolgevano a consulenti strategici provenienti dal settore umanistico (filosofi, sociologi) per analizzare i grandi cambiamenti nei mercati e nelle abitudini dei consumatori, oppure a centri studi per capire i cambiamenti geopolitici, adesso cercano una voce diversa capace di interpretare il mondo di oggi, diventato incomprensibile e soprattutto non più prevedibile dalle organizzazioni, perché rivoluzionato da sempre nuove tecnologie per il lavoro e la vita, da conflitti locali e globali, da pandemie, da trasformazioni velocissime della società.

I futuristi hanno competenze trasversali, studiano in centri di ricerca e università (in Italia i poli principali sono a Napoli e Trento) e sono specializzati nella stesura di piani strategici, con l’obiettivo di individuare scenari futuri. Non dichiarano di prevedere cosa succederà, invece offrono analisi sui possibili sviluppi di società, economia e tecnologia, per costruire strategie alternative. Non solo, organizzano anche attività interne all’azienda, con metodologie consolidate, per aiutare gli imprenditori e i manager a capire qual è la loro reale vocazione e quali cambiamenti interni possono essere realizzati.

La nuova ondata di esperti di cose future è nata venti anni fa negli Stati Uniti, tra Palo Alto e l’Istituto di ricerca sul futuro, ma in realtà si rifà ad approcci che hanno più di settant’anni. Alla base c’è un’idea: diminuire l’incertezza sul domani e aiutare le aziende a diventare più agili usando l’intelligenza umana (e non quella delle macchine) nel modo migliore possibile.

Teorie cognitive e studi matematici le diverse anime dei chatbot

L’intelligenza artificiale simula le reti neuronali, l’analisi dei dati di marketing punta invece sull’approccio quantitativo.

Le teorie cognitive sono alla base dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, anche se una parte è autonoma dagli studi umani e si basa solo su studi matematico statistici di tipo predittivo. Quella che va per la maggiore, secondo Marco La Rosa, esperto di comunicazione digitale e Seo strategist, autore di un recente volume sulle neuroscienze edito da Hoepli, ‘Neurocopywriting’, è basata sui meccanismi del rinforzo indebolimento sinaptico per influenzare la memoria.

«Tutti questi chatbot usano le simulazioni delle reti neurali – spiega La Rosa – Le reti neurali funzionano in base al rafforzamento esperienziale. I collegamenti tra questi neuroni artificiali possono essere rinforzati o indeboliti, a livello di simulazione, anche nell’apprendimento di un messaggio. In base ai feedback, la macchina impara. Più diamo feedback, più il tool si addestra».

«Sullo studio dei dati di marketing attraverso l’AI, invece, l’approccio è comportamentista, ovvero basato sul comportamento degli utenti e non sul perché lo sviluppano, e portato avanti con indagini di tipo prevalentemente quantitativo – sottolinea La Rosa – Oggi ci sono milioni di dati al secondo e si fanno analisi predittive a partire da quelli, ragionando in termini di analisi statistica applicata ai mezzi evoluti che abbiamo a disposizione.

Con Google Analytics è molto più facile di prima reperire dati e processarli e avere una significatività statistica impossibile nelle vecchie indagini. L’AI rende il lavoro di analisi veloce ed economico. È il digitale, a mio avviso, che ha avviato la prima vera rivoluzione, non l’AI che processa i dati rendendoli più performanti per le analisi predittive: ma dalla combinazione tra big data e AI scaturisce una risposta veloce e generalmente efficiente, anche se spesso piuttosto standard».